La sentenza n. 9535 del 4 aprile scorso, della I sezione civile della Corte di Cassazione, che l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, costantemente aggiornato anche sulla giurisprudenza, ha avuto modo di studiare e approfondire, ha precisato interessanti disposizioni in tema di assegno di mantenimento.
La sentenza n. 9535 del 4 aprile
scorso, della I sezione civile della
Corte di Cassazione, che l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, costantemente
aggiornato anche sulla giurisprudenza, ha avuto modo di studiare e
approfondire, ha precisato interessanti disposizioni in tema di assegno di
mantenimento.
Precedentemente, il Tribunale della Spezia, dopo aver dichiarato
la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra due coniugi, ha
disposto che l’ex marito versasse all’ex moglie un assegno pari a duemila euro
mensili. Avverso tale pronuncia, lo stesso ha proposto ricorso dinanzi alla
Corte di Appello di Genova, chiedendo che fosse escluso l’obbligo di versare qualsivoglia
assegno divorzile all’ex moglie. La Corte territoriale, rilevato che l’età
della moglie non consentisse a quest’ultima di lavorare, e che la documentazione concernente i redditi percepiti dal marito fosse poco
convincente, ha confermato l’obbligo dell’appellante di versare l’assegno di
mantenimento nella misura già fissata in primo grado (perlomeno fino a quando
la ex moglie non sarebbe stata in possesso della somma di ottocento euro, a lei
riconosciuta con sentenza definitiva, a titolo di utile, per essere associata
in partecipazione nella farmacia dell’ex marito).
Chiarisce
l’Avvocato Pitorri che, dopo aver chiesto la pronuncia della Suprema Corte,
tramite tre motivi di doglianza, il marito si è visto rigettare il ricorso. Più
specificamente, con primo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione, o
falsa applicazione, dell’art. 10 L. n. 74 del 1987, modificativo del disposto
dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970. Il ricorrente ha sostenuto che la Corte
distrettuale, pur essendo tenuta a valutare l’intera consistenza del patrimonio
dei due coniugi, ricomprendendovi qualsiasi utilità suscettibile di valutazione
economica, non avrebbe considerato, al fine di determinare l’entità
dell’assegno di divorzio, il totale ed esclusivo godimento della casa coniugale
da parte dell’ex moglie; il suo completo disinteresse al mondo del lavoro dopo
la separazione; il suo grado di formazione professionale e il suo bagaglio di
esperienza maturato negli anni di lavoro presso la farmacia di famiglia; oltre,
da ultimo, alla esigua durata della sua attività lavorativa in rapporto alla
vita lavorativa media di una donna.
Con il
secondo motivo di impugnazione l’ex marito, nel censurare la sentenza
d’appello, ha espressamente lamentato la violazione o falsa applicazione della
L. n. 898 del 1970, art. 5, nella parte in cui la Corte territoriale, benché
nell’accertamento del diritto all’emolumento dovesse mettere a confronto le
rispettive potenzialità economiche (intese non solo come disponibilità attuali
di beni e introiti ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore),
non avrebbe tenuto conto del credito
dell’ex moglie, quale associata in partecipazione, oltre al fatto che non
avrebbe considerato che l’immobile abitativo apparteneva già al ricorrente, in quanto
era stato venduto all’asta su input dell’ex moglie.
Con il
terzo, e ultimo motivo, di ricorso la sentenza impugnata è stata censurata per
violazione e falsa applicazione della L. n. 74 del 1987, art. 10, modificativo
del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5, ed omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio in quanto la Corte d’appello – erroneamente
qualificando il ricorrente, titolare di una farmacia, come professionista,
piuttosto che come commerciante, si sarebbe limitata a negare l’attendibilità
della dichiarazione dei redditi dell’appellante, senza disporre alcuna indagine
al riguardo e basando le proprie valutazioni unicamente sull’assetto economico
relativo alla separazione.
Le
considerazioni degli Ermellini della prima sezione civile della Corte di
Cassazione, nel rigetto del ricorso del
marito, vengono spiegate dall’Avvocato Pitorri come segue. Con riferimento al
primo motivo di ricorso la Corte sostiene che i giudici d’appello abbiano
ampiamente motivato relativamente alla sproporzionata differenza economica e
patrimoniale fra i coniugi, considerando in particolare, rispetto al momento
della pronuncia, quale epoca a cui il giudice deve far riferimento ai fini
dell’individuazione delle condizioni per riconoscere il diritto alla percezione
dell’assegno divorzile, il venir meno della capacità lavorativa dell’ex moglie
per via dell’età. A parere della Corte, pertanto, nessuna censura può essere mossa rispetto
alla mancata valorizzazione del godimento della casa familiare, soprattutto perché
la stessa giurisprudenza ha più volte chiarito che l’uso di una casa di
abitazione (che, ovviamente, genera un risparmio di spesa), va certamente considerato ai fini dell’accertamento della
consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi, come nel caso de quo, in cui è manifesta una
situazione precaria (cfr., in tal senso, Cass. civ. sez. VI, 11 gennaio 2016,
n. 223).
Con la
sentenza in esame, pertanto, i Supremi Giudici ribadiscono un principio già
affermato in precedenti pronunce di legittimità, secondo il quale “in sede di determinazione dell’assegno di
divorzio, l’occupazione di fatto di un immobile da parte del coniuge configura
utilità che fuoriesce dall’ambito valutativo proprio dei valori legalmente
posseduti da ciascuno dei coniugi, rimanendo la difficoltà di liberazione
dell’immobile, da parte del suo proprietario, un dato di fatto estraneo alla
ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali”. (cfr.
Cass. civ. sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223; Cass. civ. sez. I, 3 ottobre 2005,
n. 19291; Cass. civ. sez. I, 28 dicembre 2010, n. 26197).
Detta
occupazione, invero, evidenzia l’Avvocato Pitorri, rende inapplicabile il
principio di diritto secondo cui, invece, in sede di divorzio, ai fini della
determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto dell’intera
consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente,
ricomprendere qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso
l’uso di una casa di abitazione, valutabile in misura pari al risparmio di
spesa che occorrerebbe sostenere per godere dell’immobile a titolo di
locazione.
Con
riguardo al secondo motivo del ricorso, la Corte di Cassazione, ritenendolo inammissibile, sottolinea come di
tali questioni non si fosse fatto alcun cenno nella sentenza impugnata, e
afferma che, “qualora con il ricorso per
cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui
non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al
fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura,
non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma
anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare
in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo
alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione
prima di esaminare il merito della suddetta questione”. (cfr. Cass. civ.
sez. I, ord. 13 marzo 2018, n. 6089; Cass. civ. sez. I ,18 ottobre 2013, n.
23675.)
L’art.
360 c.p.c., n. 5, invero, nella formulazione attualmente vigente, ha introdotto
nell’ordinamento giuridico un vizio specifico denunciabile per Cassazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre a carattere decisivo
(vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della
controversia).
Ne
deriva che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e
art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”,
il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso
risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”. Fermo restando che
l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di
omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in
causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
La
riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stata dunque
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione.
E’,
quindi, denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che diventa
una vera e propria violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto
attinente all’esistenza della motivazione in sé (purché il vizio risulti dal
testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze
processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (così si è pronunciata la
Corte in Cass. SS.UU. civ., 7 aprile 2014, n. 8053).
Relativamente
al merito, al terzo motivo di ricorso, i
Giudici Supremi affermano che “in tema di
divorzio, l’art. 5, comma 9, l. n. 898/1970, non impone al Tribunale in via
diretta ed automatica di disporre indagini, avvalendosi della polizia
tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato,
ma rimette allo stesso giudice la valutazione di tale esigenza, in forza del
principio generale dettato dall’art. 187 c.p.c., che affida al giudice la
facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli
altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e
concludenza”.
(In senso conforme Cass. civ. sez. I, 6 giugno 2013, n. 14336; Cass. civ. sez.
I, 18 giugno 2008, n. 16575; Cass. civ. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9861; Cass.
civ. sez. I, 21 maggio 2002, n. 7435; Cass. civ. sez. I, 21 giugno 2000, n.
8417).
Ulteriormente,
rileva l’Avvocato Pitorri, l’esercizio
del potere di disporre indagini patrimoniali, avvalendosi della polizia
tributaria (che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della
prova), rientra nella discrezionalità del giudice di merito. Non può essere, cioè
considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice
contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche.
Per la
Suprema Corte in tanto il giudicante possa qualificare come inattendibili le
dichiarazioni reddituali a lui prodotte in quanto egli abbia disposto indagini
patrimoniali al riguardo. Una simile interpretazione fa sicuramente dipendere
la valutazione delle dichiarazioni dei redditi e delle prove documentali
relative ai redditi delle parti non dallo scrutinio che ne faccia il giudice ma
dal risultato delle indagini esperite. Al contrario, invece, anche in queste
controversie la valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116
c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun
modo condizionata dalla scelta, ugualmente discrezionale, di disporre,
d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia
tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti
per la decisione.
La sentenza n. 9535 del 4 aprile scorso, della I sezione civile della Corte di Cassazione, che l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, costantemente aggiornato anche sulla giurisprudenza, ha avuto modo di studiare e approfondire, ha precisato interessanti disposizioni in tema di assegno di mantenimento.
Precedentemente, il Tribunale della Spezia, dopo
aver dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra
due coniugi, ha disposto che l’ex marito versasse all’ex moglie un assegno pari
a duemila euro mensili. Avverso tale pronuncia, lo stesso ha proposto ricorso
dinanzi alla Corte di Appello di Genova, chiedendo che fosse escluso l’obbligo
di versare qualsivoglia assegno divorzile all’ex moglie. La Corte territoriale,
rilevato che l’età della moglie non consentisse a quest’ultima di
lavorare, e che la documentazione
concernente i redditi percepiti dal
marito fosse poco convincente, ha confermato l’obbligo dell’appellante di
versare l’assegno di mantenimento nella misura già fissata in primo grado
(perlomeno fino a quando la ex moglie non sarebbe stata in possesso della somma
di ottocento euro, a lei riconosciuta con sentenza definitiva, a titolo di utile,
per essere associata in partecipazione nella farmacia dell’ex marito).
Chiarisce
l’Avvocato Pitorri che, dopo aver chiesto la pronuncia della Suprema Corte,
tramite tre motivi di doglianza, il marito si è visto rigettare il ricorso. Più
specificamente, con primo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione, o
falsa applicazione, dell’art. 10 L. n. 74 del 1987, modificativo del disposto
dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970. Il ricorrente ha sostenuto che la Corte
distrettuale, pur essendo tenuta a valutare l’intera consistenza del patrimonio
dei due coniugi, ricomprendendovi qualsiasi utilità suscettibile di valutazione
economica, non avrebbe considerato, al fine di determinare l’entità
dell’assegno di divorzio, il totale ed esclusivo godimento della casa coniugale
da parte dell’ex moglie; il suo completo disinteresse al mondo del lavoro dopo
la separazione; il suo grado di formazione professionale e il suo bagaglio di
esperienza maturato negli anni di lavoro presso la farmacia di famiglia; oltre,
da ultimo, alla esigua durata della sua attività lavorativa in rapporto alla
vita lavorativa media di una donna.
Con il
secondo motivo di impugnazione l’ex marito, nel censurare la sentenza
d’appello, ha espressamente lamentato la violazione o falsa applicazione della
L. n. 898 del 1970, art. 5, nella parte in cui la Corte territoriale, benché
nell’accertamento del diritto all’emolumento dovesse mettere a confronto le
rispettive potenzialità economiche (intese non solo come disponibilità attuali
di beni e introiti ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore),
non avrebbe tenuto conto del credito
dell’ex moglie, quale associata in partecipazione, oltre al fatto che non
avrebbe considerato che l’immobile abitativo apparteneva già al ricorrente, in quanto
era stato venduto all’asta su input dell’ex moglie.
Con il
terzo, e ultimo motivo, di ricorso la sentenza impugnata è stata censurata per
violazione e falsa applicazione della L. n. 74 del 1987, art. 10, modificativo
del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5, ed omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio in quanto la Corte d’appello – erroneamente
qualificando il ricorrente, titolare di una farmacia, come professionista,
piuttosto che come commerciante, si sarebbe limitata a negare l’attendibilità
della dichiarazione dei redditi dell’appellante, senza disporre alcuna indagine
al riguardo e basando le proprie valutazioni unicamente sull’assetto economico
relativo alla separazione.
Le
considerazioni degli Ermellini della prima sezione civile della Corte di
Cassazione, nel rigetto del ricorso del marito, vengono spiegate dall’Avvocato
Pitorri come segue. Con riferimento al primo motivo di ricorso la Corte
sostiene che i giudici d’appello abbiano ampiamente motivato relativamente alla
sproporzionata differenza economica e patrimoniale fra i coniugi, considerando
in particolare, rispetto al momento della pronuncia, quale epoca a cui il
giudice deve far riferimento ai fini dell’individuazione delle condizioni per
riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno divorzile, il venir meno
della capacità lavorativa dell’ex moglie per via dell’età. A parere della
Corte, pertanto, nessuna censura può essere mossa rispetto alla mancata
valorizzazione del godimento della casa familiare, soprattutto perché la stessa
giurisprudenza ha più volte chiarito che l’uso di una casa di abitazione (che,
ovviamente, genera un risparmio di spesa), va certamente considerato ai fini dell’accertamento della
consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi, come nel caso de quo, in cui è manifesta una
situazione precaria (cfr., in tal senso, Cass. civ. sez. VI, 11 gennaio 2016,
n. 223).
Con la
sentenza in esame, pertanto, i Supremi Giudici ribadiscono un principio già
affermato in precedenti pronunce di legittimità, secondo il quale “in sede di determinazione dell’assegno di
divorzio, l’occupazione di fatto di un immobile da parte del coniuge configura
utilità che fuoriesce dall’ambito valutativo proprio dei valori legalmente
posseduti da ciascuno dei coniugi, rimanendo la difficoltà di liberazione
dell’immobile, da parte del suo proprietario, un dato di fatto estraneo alla
ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali”. (cfr.
Cass. civ. sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 223; Cass. civ. sez. I, 3 ottobre 2005,
n. 19291; Cass. civ. sez. I, 28 dicembre 2010, n. 26197).
Detta
occupazione, invero, evidenzia l’Avvocato Pitorri, rende inapplicabile il
principio di diritto secondo cui, invece, in sede di divorzio, ai fini della
determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto dell’intera
consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi e, conseguentemente,
ricomprendere qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso
l’uso di una casa di abitazione, valutabile in misura pari al risparmio di
spesa che occorrerebbe sostenere per godere dell’immobile a titolo di
locazione.
Con
riguardo al secondo motivo del ricorso, la Corte di Cassazione, ritenendolo inammissibile, sottolinea come di
tali questioni non si fosse fatto alcun cenno nella sentenza impugnata, e
afferma che, “qualora con il ricorso per
cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui
non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al
fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura,
non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma
anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare
in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo
alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione
prima di esaminare il merito della suddetta questione”. (cfr. Cass. civ.
sez. I, ord. 13 marzo 2018, n. 6089; Cass. civ. sez. I ,18 ottobre 2013, n.
23675.)
L’art.
360 c.p.c., n. 5, invero, nella formulazione attualmente vigente, ha introdotto
nell’ordinamento giuridico un vizio specifico denunciabile per Cassazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre a carattere decisivo
(vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della
controversia).
Ne
deriva che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e
art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”,
il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso
risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”. Fermo restando che
l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di
omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in
causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
La
riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stata dunque
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione.
E’,
quindi, denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che diventa
una vera e propria violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto
attinente all’esistenza della motivazione in sé (purché il vizio risulti dal
testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze
processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (così si è pronunciata la
Corte in Cass. SS.UU. civ., 7 aprile 2014, n. 8053).
Relativamente al merito, al terzo motivo di ricorso, i Giudici Supremi affermano che “in tema di divorzio, l’art. 5, comma 9, l. n. 898/1970, non impone al Tribunale in via diretta ed automatica di disporre indagini, avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso giudice la valutazione di tale esigenza, in forza del principio generale dettato dall’art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza”. (In senso conforme Cass. civ. sez. I, 6 giugno 2013, n. 14336; Cass. civ. sez. I, 18 giugno 2008, n. 16575; Cass. civ. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9861; Cass. civ. sez. I, 21 maggio 2002, n. 7435; Cass. civ. sez. I, 21 giugno 2000, n. 8417).
Ulteriormente,
rileva l’Avvocato Pitorri, l’esercizio del potere di disporre indagini
patrimoniali, avvalendosi della polizia tributaria (che costituisce una deroga
alle regole generali sull’onere della prova), rientra nella discrezionalità del
giudice di merito. Non può essere, cioè considerato anche come un dovere
imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro
rispettive condizioni economiche.
Per la Suprema Corte in tanto il giudicante possa qualificare come inattendibili le dichiarazioni reddituali a lui prodotte in quanto egli abbia disposto indagini patrimoniali al riguardo. Una simile interpretazione fa sicuramente dipendere la valutazione delle dichiarazioni dei redditi e delle prove documentali relative ai redditi delle parti non dallo scrutinio che ne faccia il giudice ma dal risultato delle indagini esperite. Al contrario, invece, anche in queste controversie la valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun modo condizionata dalla scelta, ugualmente discrezionale, di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione.
Avvocato Iacopo Maria Pitorri