I migranti della nave Diciotti fanno causa

In questi giorni è emerso un risvolto inaspettato, a distanza di sei mesi da un episodio che ha fatto molto discutere, in Italia e in Europa.

In questi giorni è emerso un risvolto inaspettato, a distanza di sei mesi da un episodio che ha fatto molto discutere, in Italia e in Europa.

Quarantuno dei centosettantasette migranti, eritrei, tra cui un minore, che erano a bordo della nave Diciotti, lo scorso agosto (che soltanto in data 20 agosto, dopo 5 giorni in mare, sbarcò al porto di Catania), hanno presentato un ricorso al tribunale civile di Roma per chiedere al governo italiano un risarcimento per essere stati costretti a rimanere a bordo dell’imbarcazione diversi giorni. La somma richiesta si aggirerebbe  tra i quarantaduemila ed i settantunomila euro.

Contestualmente è stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

La nave Diciotti è, ormai, diventata una nave simbolo, per l’Italia, soprattutto per l’Unione Europea.

Non vi è chi non ricordi che tutto era cominciato lo scorso 15 agosto, quando la suddetta nave militare aveva tratto in salvo 190 persone, in fuga dalla Libia. La mancata, tempestiva indicazione del  “porto sicuro” per lo sbarco, aveva inevitabilmente aperto una polemica con Malta per il negato salvataggio, posto che era stato chiesto all’Europa di farsi carico di una quota dei migranti, minacciando più volte anche il respingimento verso la Libia.

Dopo esser rimasta ferma al largo dell’isola di Lampedusa per ben cinque giorni,  allora, era stato individuato in Catania il porto di approdo. Tuttavia, dopo qualche ora, il Viminale aveva annunciato di non aver autorizzato lo sbarco. Da quel momento la nave  era rimasta in attesa di un’indicazione di attracco dalle autorità maltesi.

Le persone a bordo dell’imbarcazione (tra cui trenta minori non accompagnati) si erano, quindi, venute a trovare in uno stato di assoluta illegittima privazione della libertà di fatto, senza alcuna possibilità di libero sbarco, oltre che in condizioni psicofisiche estremamente critiche.

Dopo esser scesi dalla Diciotti,  gli stranieri si erano rifugiati presso le strutture di Baobab Experience.

Ed è proprio dalla tendopoli del Baobab, a Roma, che, oggi, alcuni legali sta assistendo i migranti nella richiesta di risarcimento danni, sostenendo di aver riscontrato una grave violazione dei diritti umani e la privazione della libertà personale senza un ordine giudiziario. Queste le basi su cui si fonda la richiesta nei confronti del governo italiano.

Al momento, tuttavia, molti migranti coinvolti nella vicenda Diciotti hanno già lasciato il nostro Paese.

In questi giorni è emerso un risvolto inaspettato, a distanza di sei mesi da un episodio che ha fatto molto discutere, in Italia e in Europa.

Quarantuno dei cento settantasette migranti, eritrei, tra cui un minore, che erano a bordo della nave Diciotti, lo scorso agosto (che soltanto in data 20 agosto, dopo 5 giorni in mare, sbarcò al porto di Catania), hanno presentato un ricorso al tribunale civile di Roma per chiedere al governo italiano un risarcimento per essere stati costretti a rimanere a bordo dell’imbarcazione diversi giorni. La somma richiesta si aggirerebbe tra i quarantaduemila ed i settantunomila euro.

Contestualmente è stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

La nave Diciotti è, ormai, diventata una nave simbolo, per l’Italia, soprattutto per l’Unione Europea.

Non vi è chi non ricordi che tutto era cominciato lo scorso 15 agosto, quando la suddetta nave militare aveva tratto in salvo 190 persone, in fuga dalla Libia. La mancata, tempestiva indicazione del “porto sicuro” per lo sbarco, aveva inevitabilmente aperto una polemica con Malta per il negato salvataggio, posto che era stato chiesto all’Europa di farsi carico di una quota dei migranti, minacciando più volte anche il respingimento verso la Libia.

Dopo esser rimasta ferma al largo dell’isola di Lampedusa per ben cinque giorni, allora, era stato individuato in Catania il porto di approdo. Tuttavia, dopo qualche ora, il Viminale aveva annunciato di non aver autorizzato lo sbarco. Da quel momento la nave  era rimasta in attesa di un’indicazione di attracco dalle autorità maltesi.

Le persone a bordo dell’imbarcazione (tra cui trenta minori non accompagnati) si erano, quindi, venute a trovare in uno stato di assoluta illegittima privazione della libertà di fatto, senza alcuna possibilità di libero sbarco, oltre che in condizioni psicofisiche estremamente critiche.

Dopo esser scesi dalla Diciotti, gli stranieri si erano rifugiati presso le strutture di Baobab Experience.

Ed è proprio dalla tendopoli del Baobab, a Roma, che, oggi, alcuni legali sta assistendo i migranti nella richiesta di risarcimento danni, sostenendo di aver riscontrato una grave violazione dei diritti umani e la privazione della libertà personale senza un ordine giudiziario. Queste le basi su cui si fonda la richiesta nei confronti del governo italiano.

Al momento, tuttavia, molti migranti coinvolti nella vicenda Diciotti hanno già lasciato il nostro Paese.

Avv. Jacopo Maria Pitorri

Migranti, irretroattività del decreto sicurezza

La Corte di Cassazione, lo scorso 20 febbraio 2019, ha depositato una sentenza che potrebbe protrarre gli effetti del decreto sicurezza sulla protezione umanitaria. La maggior parte delle domande che sono state esaminate (e respinte) in questi mesi dalle Commissioni d’asilo sono state tutte presentate prima del 5 ottobre 2018 (giorno di entrata in vigore della nuova normativa). Basti pensare che sono ben più di 23.000 i migranti che negli ultimi quattro mesi si sono visti negare qualsiasi tipo di protezione in applicazione del Decreto Sicurezza.

La Corte di Cassazione, lo scorso 20 febbraio 2019, ha depositato una sentenza che potrebbe protrarre gli effetti del decreto sicurezza sulla protezione umanitaria. La maggior parte delle domande che sono state esaminate (e respinte) in questi mesi dalle Commissioni d’asilo sono state tutte presentate prima del 5 ottobre 2018 (giorno di entrata in vigore della nuova normativa). Basti pensare che sono ben più di 23.000 i migranti che negli ultimi quattro mesi si sono visti negare qualsiasi tipo di protezione in applicazione del Decreto Sicurezza.

Ne deriva che le nuove norme restrittive sulla protezione umanitaria varate con il decreto sicurezza non possano essere applicate alle domande che sono state presentate prima del 5 ottobre.

Da ormai diverso tempo le commissioni territoriali avevano limitato la concessione dei permessi umanitari, ponendo sempre più restrizioni e limiti. Quasi il totale delle domande vagliate sono state presentate prima dello scorso ottobre, posto che i tempi di attesa medi prima della valutazione delle singole posizioni è di circa un anno.

Anche se gli sbarchi sono diminuiti di circa il 90%, con questa pronuncia  si verificheranno probabilmente una cascata di ricorsi. Nell’esaminare, infatti, il ricorso di un migrante (cittadino della Guinea), cui il tribunale di Napoli aveva respinto la domanda di protezione internazionale, fuggito dal suo paese per motivi economici e per contrasti con i genitori, la Cassazione ha statuito che “La normativa introdotta con il dl n.113 del 2018, convertito nella legge n.132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione“.

Per la Suprema Corte si è inevitabilmente posto il problema di quale normativa applicare, considerato che la nuova legge, al momento dell’udienza, era già entrata in vigore. Per arrivare alla decisione, la Cassazione ha preso atto del fatto che il decreto sicurezza ha previsto espressamente due commi, che disciplinano i permessi già rilasciati (che rimangono in vigore, anche se alla scadenza saranno applicate le nuove disposizioni) e quelli non ancora rilasciati, ma per i quali la commissione territoriale ha già accertato i presupposti per il rilascio del permesso umanitario. Restano, dunque, inevitabilmente esclusi i casi ancora da decidere, o quelli per i quali c’è stata una prima decisione negativa per il migrante.

Si evince, quindi, senza alcun dubbio, la irretroattività del Decreto Sicurezza. Le domande per i permessi di soggiorno per motivi umanitari presentate prima dell’entrata in vigore dello stesso, di conseguenza, saranno esaminate con la vecchia normativa. Se vi sono i presupposti, quelle accolte avranno la dicitura “casi speciali” e la durata di due anni, come previsto dal decreto legge 113 del 2018. Alla scadenza opererà, quindi, il nuovo regime.

La prima sezione civile della Suprema Corte, nel caso di cui sopra, ha, quindi, applicato il principio giuridico secondo cui “la legge non dispone che per l’avvenire”. Ha specificato la Cassazione, infatti, che il cittadino straniero, sulla base delle norme modificate dal decreto del 2018 “ha diritto a un titolo di soggiorno fondato su seri motivi umanitari desumibili dal quadro degli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dallo Stato, che sorge contestualmente al verificarsi delle condizioni di vulnerabilità, delle quali ha chiesto l’accertamento con la domanda. La domanda, di conseguenza, cristallizza il paradigma legale sulla base del quale deve essere scrutinato“.

Ulteriormente ha chiarito la Cassazione che “il potere-dovere delle commissioni territoriali di accertare le ragioni che possano residuare dal diniego delle cosiddetti protezioni maggiori”, come lo status di rifugiato, resta, “ancorché rimodulato alla luce della significativa compressione delle ragioni umanitarie realizzata dal decreto legge 113 del 2018“.

La Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso del migrante, che dunque, anche con le vecchie regole non riceverà la protezione umanitaria.

La Corte di Cassazione, lo scorso 20 febbraio 2019, ha depositato una sentenza che potrebbe protrarre gli effetti del decreto sicurezza sulla protezione umanitaria. La maggior parte delle domande che sono state esaminate (e respinte) in questi mesi dalle Commissioni d’asilo sono state tutte presentate prima del 5 ottobre 2018 (giorno di entrata in vigore della nuova normativa). Basti pensare che sono ben più di 23.000 i migranti che negli ultimi quattro mesi si sono visti negare qualsiasi tipo di protezione in applicazione del Decreto Sicurezza.

Ne deriva che le nuove norme restrittive sulla protezione umanitaria varate con il decreto sicurezza non possano essere applicate alle domande che sono state presentate prima del 5 ottobre.

Da ormai diverso tempo le commissioni territoriali avevano limitato la concessione dei permessi umanitari, ponendo sempre più restrizioni e limiti. Quasi il totale delle domande vagliate sono state presentate prima dello scorso ottobre, posto che i tempi di attesa medi prima della valutazione delle singole posizioni è di circa un anno.

Anche se gli sbarchi sono diminuiti di circa il 90%, con questa pronuncia  si verificheranno probabilmente una cascata di ricorsi. Nell’esaminare, infatti, il ricorso di un migrante (cittadino della Guinea), cui il tribunale di Napoli aveva respinto la domanda di protezione internazionale, fuggito dal suo paese per motivi economici e per contrasti con i genitori, la Cassazione ha statuito che “La normativa introdotta con il dl n.113 del 2018, convertito nella legge n.132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione“.

Per la Suprema Corte si è inevitabilmente posto il problema di quale normativa applicare, considerato che la nuova legge, al momento dell’udienza, era già entrata in vigore. Per arrivare alla decisione, la Cassazione ha preso atto del fatto che il decreto sicurezza ha previsto espressamente due commi, che disciplinano i permessi già rilasciati (che rimangono in vigore, anche se alla scadenza saranno applicate le nuove disposizioni) e quelli non ancora rilasciati, ma per i quali la commissione territoriale ha già accertato i presupposti per il rilascio del permesso umanitario. Restano, dunque, inevitabilmente esclusi i casi ancora da decidere, o quelli per i quali c’è stata una prima decisione negativa per il migrante.

Si evince, quindi, senza alcun dubbio, la irretroattività del Decreto Sicurezza. Le domande per i permessi di soggiorno per motivi umanitari presentate prima dell’entrata in vigore dello stesso, di conseguenza, saranno esaminate con la vecchia normativa. Se vi sono i presupposti, quelle accolte avranno la dicitura “casi speciali” e la durata di due anni, come previsto dal decreto legge 113 del 2018. Alla scadenza opererà, quindi, il nuovo regime.

La prima sezione civile della Suprema Corte, nel caso di cui sopra, ha, quindi, applicato il principio giuridico secondo cui “la legge non dispone che per l’avvenire”. Ha specificato la Cassazione, infatti, che il cittadino straniero, sulla base delle norme modificate dal decreto del 2018 “ha diritto a un titolo di soggiorno fondato su seri motivi umanitari desumibili dal quadro degli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dallo Stato, che sorge contestualmente al verificarsi delle condizioni di vulnerabilità, delle quali ha chiesto l’accertamento con la domanda. La domanda, di conseguenza, cristallizza il paradigma legale sulla base del quale deve essere scrutinato“.

Ulteriormente ha chiarito la Cassazione che “il potere-dovere delle commissioni territoriali di accertare le ragioni che possano residuare dal diniego delle cosiddetti protezioni maggiori”, come lo status di rifugiato, resta, “ancorché rimodulato alla luce della significativa compressione delle ragioni umanitarie realizzata dal decreto legge 113 del 2018“.

La Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso del migrante, che dunque, anche con le vecchie regole non riceverà la protezione umanitaria.

Avv. Jacopo Maria Pitorri

Stato di famiglia e nucleo familiare, le differenze

Accade, a volte, che si faccia confusione nel prendere in considerazione lo stato di famiglia e/o il nucleo familiare.

Accade, a volte, che si faccia confusione nel prendere in considerazione lo stato di famiglia e/o il nucleo familiare.

 Al riguardo esistono delle differenze di non poco conto.

Lo stato di famiglia è un documento ufficiale che certificata la composizione del nucleo familiare di ogni cittadino italiano.

Va, tuttavia, evidenziato che questo certificato non si riferisce necessariamente all’esistenza di legami parentali tra soggetti, ma indica semplicemente tutti coloro che vivono preso la stessa abitazione.

 Nello stato di famiglia l’elenco dei coabitanti è riportato indicandone nome, cognome, data e comune di nascita, comune e indirizzo di residenza.

Più segnatamente, lo stato di famiglia è rappresentato da un certificato rilasciato dal proprio Comune in cui vengono elencati i membri della famiglia anagrafica.

 Sono, cioè, inclusi tutti gli inquilini che vivono presso lo stesso indirizzo di residenza, a volte più di una famiglia.
In tal senso, il documento serve anche a definire i rapporti esistenti tra i diversi individui, che non devono essere per forza parentali, ma anche di altra natura (madre, padre, figli, tutori legali, coppie conviventi, di fatto, ecc).

E’ un documento estremamente importante per l’espletamento di diversi adempimenti di natura fiscale o per richieste di natura economica e giuridica. Può essere utile per richiedere gli assegni familiari; per calcolare i redditi dei componenti del nucleo familiare per il modello ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente); per richiedere un mutuo; per ottenere determinati benefici economici o fiscali.

Il certificato è rilasciato dall’Ufficio Anagrafe del proprio Comune di residenza, previa esibizione di un documento di identità in corso di validità.

 Per ottenerlo, è necessario provvedere al pagamento di una marca da bollo, qualora il certificato venga rilasciato su carta bollata. In alternativa è possibile richiedere lo stato di famiglia anche online fornendo semplicemente i dati riportati sulla propria tessera sanitaria.

Lo stato di famiglia può anche essere autocertificato dal richiedente.

Ai fini della validità, il documento deve contenere i dati anagrafici personali e dei coabitanti, il numero dei componenti della famiglia e l’indirizzo di residenza.

Diverso è, invece, il nucleo familiare.

Indica, infatti, una unità sociologica, che vive nello stesso alloggio, oltre che una famiglia tradizionale, o una persona fisica che vive sola (in una casa, appartamento, convento o caserma).

Dal punto di vista della statistica e dell’economia, il nucleo familiare è l’unità base negli studi e nei censimenti.

Esso può avere una o più fonti di reddito, che consistono nel membro che percepisce un salario, uno stipendio, un affitto, una pensione, o quant’altro.

Nell’attuale legislazione italiana, il nucleo familiare assume significati diversi a seconda delle leggi; la famiglia anagrafica è invece definita precisamente dal DPR n. 223/89, art.4, ed è quella per cui gli uffici comunali rilasciano lo stato di famiglia.

 Nel nucleo familiare sono compresi i componenti della famiglia anagrafica ed i soggetti che pur non avendo la stessa residenza del dichiarante sono fiscalmente a suo carico.

Il nucleo familiare generalmente è composto dal dichiarante, dal coniuge (anche se non presente nello stato di famiglia), dai figli minori, anche se a carico ai fini IRPEF di altre persone  che risiedono con il proprio  genitore, dai figli maggiorenni a carico a fini Irpef.

Lo stato di famiglia attesta i componenti della famiglia anagrafica e deve essere richiesto al Comune di residenza. In sostanza serve per ottenere determinati benefici  di natura fiscale ed economica .

Il nucleo familiare, invece, è un concetto più ampio che comprende sia i conviventi che i non conviventi fiscalmente a carico del dichiarante (ad esempio, relativamente all’Irpef, il figlio che studia all’estero ma è economicamente a carico dei genitori). Questo certificato è funzionale alla compilazione dellISEE, necessario a dimostrare le proprie condizioni economiche per l’ottenimento di benefici.

Ne deriva che stato di famiglia e nucleo familiare, anche se spesso non vengono distinti, sono certamente certificati differenti, sia per composizione che per funzione. Il primo indica la famiglia anagrafica, il secondo tutti i componenti fiscalmente a carico del dichiarante.

Ecco le differenze.

Accade, a volte, che si faccia confusione nel prendere in considerazione lo stato di famiglia e/o il nucleo familiare.

 Al riguardo esistono delle differenze di non poco conto.

Lo stato di famiglia è un documento ufficiale che certificata la composizione del nucleo familiare di ogni cittadino italiano.

Va, tuttavia, evidenziato che questo certificato non si riferisce necessariamente all’esistenza di legami parentali tra soggetti, ma indica semplicemente tutti coloro che vivono preso la stessa abitazione.

 Nello stato di famiglia l’elenco dei coabitanti è riportato indicandone nome, cognome, data e comune di nascita, comune e indirizzo di residenza.

Più segnatamente, lo stato di famiglia è rappresentato da un certificato rilasciato dal proprio Comune in cui vengono elencati i membri della famiglia anagrafica.

 Sono, cioè, inclusi tutti gli inquilini che vivono presso lo stesso indirizzo di residenza, a volte più di una famiglia.
In tal senso, il documento serve anche a definire i rapporti esistenti tra i diversi individui, che non devono essere per forza parentali, ma anche di altra natura (madre, padre, figli, tutori legali, coppie conviventi, di fatto, ecc).

E’ un documento estremamente importante per l’espletamento di diversi adempimenti di natura fiscale o per richieste di natura economica e giuridica. Può essere utile per richiedere gli assegni familiari; per calcolare i redditi dei componenti del nucleo familiare per il modello ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente); per richiedere un mutuo; per ottenere determinati benefici economici o fiscali.

Il certificato è rilasciato dall’Ufficio Anagrafe del proprio Comune di residenza, previa esibizione di un documento di identità in corso di validità.

 Per ottenerlo, è necessario provvedere al pagamento di una marca da bollo, qualora il certificato venga rilasciato su carta bollata. In alternativa è possibile richiedere lo stato di famiglia anche online fornendo semplicemente i dati riportati sulla propria tessera sanitaria.

Lo stato di famiglia può anche essere autocertificato dal richiedente.

Ai fini della validità, il documento deve contenere i dati anagrafici personali e dei coabitanti, il numero dei componenti della famiglia e l’indirizzo di residenza.

Diverso è, invece, il nucleo familiare.

Indica, infatti, una unità sociologica, che vive nello stesso alloggio, oltre che una famiglia tradizionale, o una persona fisica che vive sola (in una casa, appartamento, convento o caserma).

Dal punto di vista della statistica e dell’economia, il nucleo familiare è l’unità base negli studi e nei censimenti.

Esso può avere una o più fonti di reddito, che consistono nel membro che percepisce un salario, uno stipendio, un affitto, una pensione, o quant’altro.

Nell’attuale legislazione italiana, il nucleo familiare assume significati diversi a seconda delle leggi; la famiglia anagrafica è invece definita precisamente dal DPR n. 223/89, art.4, ed è quella per cui gli uffici comunali rilasciano lo stato di famiglia.

 Nel nucleo familiare sono compresi i componenti della famiglia anagrafica ed i soggetti che pur non avendo la stessa residenza del dichiarante sono fiscalmente a suo carico.

Il nucleo familiare generalmente è composto dal dichiarante, dal coniuge (anche se non presente nello stato di famiglia), dai figli minori, anche se a carico ai fini IRPEF di altre persone  che risiedono con il proprio  genitore, dai figli maggiorenni a carico a fini Irpef.

Lo stato di famiglia attesta i componenti della famiglia anagrafica e deve essere richiesto al Comune di residenza. In sostanza serve per ottenere determinati benefici  di natura fiscale ed economica .

Il nucleo familiare, invece, è un concetto più ampio che comprende sia i conviventi che i non conviventi fiscalmente a carico del dichiarante (ad esempio, relativamente all’Irpef, il figlio che studia all’estero ma è economicamente a carico dei genitori). Questo certificato è funzionale alla compilazione dellISEE, necessario a dimostrare le proprie condizioni economiche per l’ottenimento di benefici.

Ne deriva che stato di famiglia e nucleo familiare, anche se spesso non vengono distinti, sono certamente certificati differenti, sia per composizione che per funzione. Il primo indica la famiglia anagrafica, il secondo tutti i componenti fiscalmente a carico del dichiarante.

Ecco le differenze.

Avvocato Jacopo Maria Pitorri

La nave salva migranti Alan Kurdi

Mentre nel Mediterraneo si continua inesorabilmente a perdere la vita (basti pensare che soltanto qualche giorno fa la croce rossa libica ha recuperato tre cadaveri dalla spiaggia di Sirte, oltre al fatto che sono già venti i corpi restituiti dal mare a febbraio), la nave della Ong tedesca Sea Eye ha lasciato ieri notte, 18 febbraio 2019, il porto spagnolo di Palma de Maiorca, diretta verso la zona Search And Rescue.

Mentre nel Mediterraneo si continua inesorabilmente a perdere la vita (basti pensare che soltanto qualche giorno fa la croce rossa libica ha recuperato tre cadaveri dalla spiaggia di Sirte, oltre al fatto che sono già venti i corpi restituiti dal mare a febbraio), la nave della Ong tedesca Sea Eye ha lasciato ieri notte, 18 febbraio 2019, il porto spagnolo di Palma de Maiorca, diretta verso la zona Search And Rescue .

Si precisa che le Ong sono organizzazioni senza fini di lucro, che operano in maniera indipendente dai vari Stati e dalle organizzazioni governative internazionali. Esistono in tutto il mondo e portano avanti con il loro operato campagne dall’inestimabile valore umanitario. Se ne é sentito parlare spesso, negli ultimi tempi, in tema di migranti. Le Ong denunciano i sempre più frequenti casi di respingimento di migranti in Libia ad opera di navi commerciali, che vengono coinvolte dalla Guardia costiera di Tripoli nel soccorso delle imbarcazioni che partono e che riportano indietro i migranti (nonostante la Libia non sia considerata un porto sicuro).

Questa nave, appena salpata, sarà l’unica presente nel nostro mare. E’, infatti, la sola imbarcazione umanitaria rimasta libera, coinvolta nella ricerca e nel soccorso di migranti nel Mare Mediterraneo. Torna, invero, a pattugliare le acque della zona Sar (Search And Rescue) libica, rimaste totalmente sfornite, private di tutela a seguito dell’ormai noto fermo della Sea Watch,  rimasta a Catania per ordine della Capitaneria di porto e delle autorità olandesi.

Sea Eye, organizzazione non governativa da tempo attiva nel Mediterraneo, ha ribattezzato questa imbarcazione, che ormai ha preso il largo, con il nome di Alan Kurdi, lo scorso 11 febbraio, a Palma De Maiorca, alla presenza del padre Abdullah Kurdi. La scelta è avvenuta al fine di ricordare Alan, il bambino siriano di tre anni, divenuto un simbolo della crisi europea dei migranti, dopo la morte per annegamento, nel 2015. La famosissima foto, scattata al ritrovamento del suo corpo senza vita su una spiaggia turca, con indosso una maglietta rossa,  e  il capo rivolto verso l’Europa, è diventata l’icona dei piccoli migranti che perdono la vita in mare, ed ha colpito le coscienze di popoli e governi europei e di tutto il mondo.

Il bimbo e la sua famiglia erano rifugiati siriani, che stavano tentando di raggiungere l’Europa via mare. A seguito del rifiuto di essere accolti in Canada, osando affrontare un pericoloso, terribile viaggio,  nel fare la traversata dell’Egeo, diretti verso la Grecia, erano stati vittime di un naufragio sulle coste turche, in cui purtroppo aveva trovato la morte il piccolo Alan. Insieme a lui erano morti suo fratello Ghalib e sua madre Rehana. Questa morte aveva inevitabilmente acceso non poche polemiche sulla crisi dei rifugiati, oltre ad un clamoroso dibattito diffusosi durante le elezioni federali canadesi del 2015, ed in generale in tutti i Paesi coinvolti dalla crisi dei migranti. Tant’è vero che il grave, tragico episodio aveva generato, ineluttabilmente, numerose risposte internazionali.

Non vi è dubbio, comunque, che il nome Alan Kurdi terrà vivo il ricordo di una tragica realtà: quella del dolore e della sofferenza; quella delle persone che, ogni giorno, annegano nel Mediterraneo.

Mentre nel Mediterraneo si continua inesorabilmente a perdere la vita (basti pensare che soltanto qualche giorno fa la croce rossa libica ha recuperato tre cadaveri dalla spiaggia di Sirte, oltre al fatto che sono già venti i corpi restituiti dal mare a febbraio), la nave della Ong tedesca Sea Eye ha lasciato ieri notte, 18 febbraio 2019, il porto spagnolo di Palma de Maiorca, diretta verso la zona Search And Rescue.

Si precisa che le Ong sono organizzazioni senza fini di lucro, che operano in maniera indipendente dai vari Stati e dalle organizzazioni governative internazionali. Esistono in tutto il mondo e portano avanti con il loro operato campagne dall’inestimabile valore umanitario. Se ne é sentito parlare spesso, negli ultimi tempi, in tema di migranti. Le Ong denunciano i sempre più frequenti casi di respingimento di migranti in Libia ad opera di navi commerciali, che vengono coinvolte dalla Guardia costiera di Tripoli nel soccorso delle imbarcazioni che partono e che riportano indietro i migranti (nonostante la Libia non sia considerata un porto sicuro).

Questa nave, appena salpata, sarà l’unica presente nel nostro mare. È, infatti, la sola imbarcazione umanitaria rimasta libera, coinvolta nella ricerca e nel soccorso di migranti nel Mare Mediterraneo. Torna, invero, a pattugliare le acque della zona Sar (Search And Rescue) libica, rimaste totalmente sfornite, private di tutela a seguito dell’ormai noto fermo della Sea Watch, rimasta a Catania per ordine della Capitaneria di porto e delle autorità olandesi.

Sea Eye, organizzazione non governativa da tempo attiva nel Mediterraneo, ha ribattezzato questa imbarcazione, che ormai ha preso il largo, con il nome di Alan Kurdi, lo scorso 11 febbraio, a Palma De Maiorca, alla presenza del padre Abdullah Kurdi. La scelta è avvenuta al fine di ricordare Alan, il bambino siriano di tre anni, divenuto un simbolo della crisi europea dei migranti, dopo la morte per annegamento, nel 2015. La famosissima foto, scattata al ritrovamento del suo corpo senza vita su una spiaggia turca, con indosso una maglietta rossa, e il capo rivolto verso l’Europa, è diventata l’icona dei piccoli migranti che perdono la vita in mare, ed ha colpito le coscienze di popoli e governi europei e di tutto il mondo.

Il bimbo e la sua famiglia erano rifugiati siriani, che stavano tentando di raggiungere l’Europa via mare. A seguito del rifiuto di essere accolti in Canada, osando affrontare un pericoloso, terribile viaggio, nel fare la traversata dell’Egeo, diretti verso la Grecia, erano stati vittime di un naufragio sulle coste turche, in cui purtroppo aveva trovato la morte il piccolo Alan. Insieme a lui erano morti suo fratello Ghalib e sua madre Rehana. Questa morte aveva inevitabilmente acceso non poche polemiche sulla crisi dei rifugiati, oltre ad un clamoroso dibattito diffusosi durante le elezioni federali canadesi del 2015, ed in generale in tutti i Paesi coinvolti dalla crisi dei migranti. Tant’è vero che il grave, tragico episodio aveva generato, ineluttabilmente, numerose risposte internazionali.

Non vi è dubbio, comunque, che il nome Alan Kurdi terrà vivo il ricordo di una tragica realtà: quella del dolore e della sofferenza; quella delle persone che, ogni giorno, annegano nel Mediterraneo.

Avvocato Jacopo Maria Pitorri

Il pontefice vuole l’apertura dei porti

“Le migrazioni sono il fatto epocale che cambierà il modo di vivere e di pensare…”. E ancora: “Spostarsi e stabilirsi altrove, con la speranza di trovare una vita migliore per sé stessi e le loro famiglia. È questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”. Sono i messaggi che, da tempo, Papa Francesco, realisticamente e nel dettaglio, va professando per indicare cosa è necessario e possibile fare per i migranti, il tutto con consapevolezza del diritto internazionale.

“Le migrazioni sono il fatto epocale che cambierà il modo di vivere e di pensare…”. E ancora: “Spostarsi e stabilirsi altrove,  con la speranza di trovare una vita migliore per se stessi e le loro famiglia. E’ questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”. Sono i messaggi che, da tempo, Papa Francesco, realisticamente e nel dettaglio, va professando per indicare  cosa è necessario e possibile fare per i migranti, il tutto con consapevolezza del diritto internazionale.

I quattro “comandamenti” che sono alla base dei messaggi, già enunciati in altre circostanze, ovvero “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, sfociano, quindi, in azioni concrete, effettive, autentiche.

Ovviamente, come spesso accade, l’effetto delle parole del Papa è, oltre che inatteso,  sconcertante e straordinario. Verosimilmente, al momento, nessuno, In Europa, è in grado di fare propria la carta ispirata ai quattro comandamenti di Francesco. E il fatto di averla stesa, messa nero su bianco senza possibilità di equivoci, è alquanto scomodo. Va, però, preso in grande considerazione un fatto:  questo Pontefice mette a disposizione la sua autorità spirituale e morale per evidenziare una concreta idea di convivenza umana e cambiamento, che riguarda l’intero pianeta. Un segnale decisamente forte. E non bisogna credere che Bergoglio voglia agire intromettendosi nelle pratiche di governo degli Stati. La questione è ben altra: ciò che il Santo Padre intende far conoscere verte sugli orientamenti, le linee di fondo, il metodo, la strada da percorrere segnalando la corretta via a chi si è smarrito sia nelle scelte politiche che nei sentimenti di solidarietà, accoglienza, umanità dei vari popoli. Tra l’altro Papa Francesco è colui che sostiene che “la paura è l’origine di ogni schiavitù e di ogni dittatura. Sulla paura del popolo cresce la violenza dei dittatore”.

In occasione dell’incontro sul tema migrazioni “Liberi dalla paura”, promosso e organizzato dalla Fondazione Migrantes della Cei, dalla Caritas Italiana e dal Centro Astalli a Sacrofano, Bergoglio si è prestato ad un selfie con il parroco di Marghera (Venezia), che era in prima fila per l’accoglienza degli immigrati. Quest’ultimo ha consegnato al Pontefice una spilletta che riporta l’eloquente slogan“Apriamo i porti”, che Papa Francesco ha poi chiesto di tenere con sé. Inoltre si è concesso per un selfie con il parroco, propagatosi immediatamente sui vari social.

Per il Santo Padre l’esortazione “apriamo i porti” costituisce un diritto umano, che va garantito nei confronti di chiunque.  Un diritto assoluto, che non può essere messo in discussione. Il Vescovo di Roma ha avuto modo di ribadirlo in più  di un’occasione nei suoi anni di pontificato.

Ne deriva che, di contro a chi proclama da sempre l’idea secondo cui questi porti dovrebbero, invece, essere chiusi, il pensiero di Bergoglio non fa che amplificare un dibattito già estremamente infervorato.

“Le migrazioni sono il fatto epocale che cambierà il modo di vivere e di pensare…”. E ancora: “Spostarsi e stabilirsi altrove, con la speranza di trovare una vita migliore per sé stessi e le loro famiglia. È questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”. Sono i messaggi che, da tempo, Papa Francesco, realisticamente e nel dettaglio, va professando per indicare cosa è necessario e possibile fare per i migranti, il tutto con consapevolezza del diritto internazionale.

I quattro “comandamenti” che sono alla base dei messaggi, già enunciati in altre circostanze, ovvero “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, sfociano, quindi, in azioni concrete, effettive, autentiche.

Ovviamente, come spesso accade, l’effetto delle parole del Papa è, oltre che inatteso, sconcertante e straordinario. Verosimilmente, al momento, nessuno, In Europa, è in grado di fare propria la carta ispirata ai quattro comandamenti di Francesco. E il fatto di averla stesa, messa nero su bianco senza possibilità di equivoci, è alquanto scomodo. Va, però, preso in grande considerazione un fatto: questo Pontefice mette a disposizione la sua autorità spirituale e morale per evidenziare una concreta idea di convivenza umana e cambiamento, che riguarda l’intero pianeta. Un segnale decisamente forte. E non bisogna credere che Bergoglio voglia agire intromettendosi nelle pratiche di governo degli Stati. La questione è ben altra: ciò che il Santo Padre intende far conoscere verte sugli orientamenti, le linee di fondo, il metodo, la strada da percorrere segnalando la corretta via a chi si è smarrito sia nelle scelte politiche che nei sentimenti di solidarietà, accoglienza, umanità dei vari popoli. Tra l’altro Papa Francesco è colui che sostiene che “la paura è l’origine di ogni schiavitù e di ogni dittatura. Sulla paura del popolo cresce la violenza dei dittatori”.

In occasione dell’incontro sul tema migrazioni “Liberi dalla paura”, promosso e organizzato dalla Fondazione Migrantes della Cei, dalla Caritas Italiana e dal Centro Astalli a Sacrofano, Bergoglio si è prestato ad un selfie con il parroco di Marghera (Venezia), che era in prima fila per l’accoglienza degli immigrati. Quest’ultimo ha consegnato al Pontefice una spilletta che riporta l’eloquente slogan“Apriamo i porti”, che Papa Francesco ha poi chiesto di tenere con sé. Inoltre, si è concesso per un selfie con il parroco, propagatosi immediatamente sui vari social.

Per il Santo Padre l’esortazione “apriamo i porti” costituisce un diritto umano, che va garantito nei confronti di chiunque.  Un diritto assoluto, che non può essere messo in discussione. Il Vescovo di Roma ha avuto modo di ribadirlo in più  di un’occasione nei suoi anni di pontificato.

Ne deriva che, di contro a chi proclama da sempre l’idea secondo cui questi porti dovrebbero, invece, essere chiusi, il pensiero di Bergoglio non fa che amplificare un dibattito già estremamente infervorato.

Avvocato Jacopo Pitorri

I paesi membri dell’unione europea

L’Unione Europea è un’organizzazione internazionale politica ed economica, che ha 28 paesi membri indipendenti e democratici, atta a garantire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali all’interno del suo territorio. Tramite un mercato europeo comune, e la cittadinanza dell’Unione europea, l’UE promuove la pace ed il benessere dei suoi popoli, lotta contro la discriminazione, favorisce il progresso scientifico e tecnologico, oltre a mirare alla stabilità politica, alla crescita economica e alla coesione sociale e territoriale tra gli stati membri.

L’Unione europea è un’organizzazione internazionale politica ed economica, che ha 28 paesi membri indipendenti e democratici, atta a garantire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali all’interno del suo territorio. Tramite un mercato europeo comune, e la cittadinanza dell’Unione europea, l’UE promuove la pace ed il benessere dei suoi popoli, lotta contro la discriminazione, favorisce il progresso scientifico e tecnologico, oltre a mirare alla stabilità politica, alla crescita economica e alla coesione sociale e territoriale tra gli stati membri.

E’ sorta proprio per creare un’unione economica e politica tra gli Stati che ne entrano a far parte. Anche per questo, le politiche di unione economica e monetaria dell’Unione europea hanno portato – nel 2002 – all’introduzione di una moneta unica, l’euro, attualmente adottato da 19 stati dell’Unione, che formano la cosiddetta eurozona, con una politica monetaria comune regolata dalla Banca centrale europea (BCE).

Dei 28, solo 19 hanno adottato la moneta europea, mentre gli altri, a eccezione di Regno Unito e Danimarca che dispongono di particolari clausole di non partecipazione, si sono impegnati a entrare nell’area euro non appena ottenuti i requisiti “di convergenza”.

Il Regno Unito che – a meno di future modifiche degli accordi – sarà ufficialmente fuori a partire dal 1 gennaio 2023 (cd “Brexit”).

Dal 1958, dalla nascita, cioè, della Comunità economica europea (CEE), ad oggi, l’Unione Europea ha cambiato il suo assetto e allargato il proprio territorio. Dapprima, invero, sei Paesi euro avevano deciso di cooperare, in particolare in ambito economico, creando la CEE. Il 25 marzo 1957, Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, firmando il Trattato di Roma che aveva dato luogo, a partire dall’1 gennaio dell’anno successivo, alla Comunità economica europea. Nel corso degli anni, l’organizzazione si era andata ampliando ad altri Stati, allargando  il campo delle sue competenze anche all’ambito politico fino a modificare il nome in Unione europea, con il Trattato di Maastricht nel 1993, e ad introdurre la moneta unica nel 1999.  Alla data del 1 gennaio 1999, dell’Ue,  facevano parte 15 Paesi, di cui 11 avevano convertito la propria moneta nazionale in quella europea. Soltanto il 3 maggio 2002 l’euro era diventata la valuta ufficiale dei Paesi dell’Unione monetaria europea.

Tra il 1958 e il 1995 erano entrati a far parte dell’Ue altri 9 Paesi: Danimarca, Regno Unito e Irlanda nel 1973, la Grecia nel 1981, Portogallo e Spagna nel 1986, Austria, Finlandia e Svezia nel 1995. Per questo motivo, nel 1999, al sorgere della moneta unica, la Comunità europea da 6 era passata già a 15 Stati membri. Nel 2004, poi, il territorio dell’Unione si era nuovamente esteso ad altri 10 Stati: Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Fino ad introdurre nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, e nel 2013, la Croazia, con la quale l’attuale Ue ha raggiunto il numero di 28 Paesi membri.

Come sopra accennato, ad eccezione di Danimarca e Regno Unito, che dispongono di clausole di non partecipazione, chiamate opt-out ovvero “rinuncia” o “deroga”, stabilite con appositi protocolli attraverso i quali un Paese concorda di non partecipare a una parte della legislazione o dei trattati dell’Unione europea, salvo poter decidere di aderire in futuro, tutti gli Stati membri, oggi, sono tenuti ad adottare la moneta comune ed entrare a far parte dell’area dell’euro una volta soddisfatti i criteri di “convergenza”, ossia condizioni economiche e giuridiche che sono state concordate nel Trattato di Maastricht.

Attualmente, la Svezia è ancora fuori dall’Eurozona, insieme ad alcuni Stati membri che hanno aderito all’Unione dopo l’introduzione dell’euro nel 2002. Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Svezia si sono infatti impegnate a entrare a far parte dell’area euro non appena ricoreranno i criteri di ammissione. Per il momento, sono considerati Stati membri con una “deroga”.

L’Eurozona si distingue infatti dalle altre aree dell’Ue per la sua gestione economica. Dalla Commissione europea sappiamo che la politica monetaria nella zona euro è di competenza dell’Eurosistema, un organismo indipendente composto dalla Banca centrale europea (Bce), con sede a Francoforte, in Germania, e dalle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’Eurozona. La Bce definisce la sua politica monetaria attraverso il Consiglio direttivo e con l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi. I governi nazionali, anche se mantengono la competenza della propria politica economica, debbono necessariamente provvedere a coordinarla affinché siano rispettati gli obiettivi comuni di stabilità, crescita e occupazione. Il coordinamento viene realizzato attraverso una serie di strutture e strumenti. Un esempio consiste nel patto di stabilità che prevede regole concordate per la disciplina di bilancio, come i limiti del disavanzo e del debito nazionale che, se non rispettati, possono portare a sanzioni anche di tipo finanziario. L’attuazione della gestione economica dell’Ue è organizzata ogni anno in un doppio ciclo chiamato “semestre europeo”.

Le decisioni più importanti dell’Unione europea, invece, vengono prese attraverso tre principali istituzioni: il Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini e viene eletto direttamente da questi, la Commissione europea, che delinea gli interessi dell’Europa e i cui membri sono nominati dai governi nazionali, e il Consiglio dell’Ue, che stabilisce le priorità generali dell’Unione e rappresenta i governi dei singoli Stati membri. A queste si aggiungono, poi, la Corte di Giustizia, che fa rispettare il diritto europeo e la Corte dei conti che verifica il finanziamento dell’attività dell’Ue.

Uno dei maggiori risultati raggiunti dall’Unione europea è la realizzazione dello “spazio Schengen”,  vale a dire di un’area senza frontiere interne nella quale i cittadini Ue, molti cittadini di Paesi terzi, chi viaggia per affari o turismo possono circolare liberamente senza essere sottoposti ai controlli di frontiera. Attualmente lo spazio Schengen comprende quasi tutti i Paesi dell’Unione, fatta eccezione per Irlanda, Regno Unito, Cipro, Bulgaria, Romania e Croazia, e alcuni stati associati non Ue quali Islanda, Lichtenstein, Norvegia e Svizzera.

L’Unione Europea è un’organizzazione internazionale politica ed economica, che ha 28 paesi membri indipendenti e democratici, atta a garantire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali all’interno del suo territorio. Tramite un mercato europeo comune, e la cittadinanza dell’Unione europea, l’UE promuove la pace ed il benessere dei suoi popoli, lotta contro la discriminazione, favorisce il progresso scientifico e tecnologico, oltre a mirare alla stabilità politica, alla crescita economica e alla coesione sociale e territoriale tra gli stati membri.

È sorta proprio per creare un’unione economica e politica tra gli Stati che ne entrano a far parte. Anche per questo, le politiche di unione economica e monetaria dell’Unione europea hanno portato – nel 2002 – all’introduzione di una moneta unica, l’euro, attualmente adottato da 19 stati dell’Unione, che formano la cosiddetta eurozona, con una politica monetaria comune regolata dalla Banca centrale europea (BCE).

Dei 28, solo 19 hanno adottato la moneta europea, mentre gli altri, a eccezione di Regno Unito e Danimarca che dispongono di particolari clausole di non partecipazione, si sono impegnati a entrare nell’area euro non appena ottenuti i requisiti “di convergenza”.

Il Regno Unito che – a meno di future modifiche degli accordi – sarà ufficialmente fuori a partire dal 1° gennaio 2023 (cd “Brexit”).

Dal 1958, dalla nascita, cioè, della Comunità economica europea (CEE), ad oggi, l’Unione Europea ha cambiato il suo assetto e allargato il proprio territorio. Dapprima, invero, sei Paesi euro avevano deciso di cooperare, in particolare in ambito economico, creando la CEE. Il 25 marzo 1957, Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, firmando il Trattato di Roma che aveva dato luogo, a partire dall’1° gennaio dell’anno successivo, alla Comunità economica europea. Nel corso degli anni, l’organizzazione si era andata ampliando ad altri Stati, allargando il campo delle sue competenze anche all’ambito politico fino a modificare il nome in Unione europea, con il Trattato di Maastricht nel 1993, e ad introdurre la moneta unica nel 1999.  Alla data del 1° gennaio 1999, dell’Ue, facevano parte 15 Paesi, di cui 11 avevano convertito la propria moneta nazionale in quella europea. Soltanto il 3 maggio 2002 l’euro era diventata la valuta ufficiale dei Paesi dell’Unione monetaria europea.

Tra il 1958 e il 1995 erano entrati a far parte dell’Ue altri 9 Paesi: Danimarca, Regno Unito e Irlanda nel 1973, la Grecia nel 1981, Portogallo e Spagna nel 1986, Austria, Finlandia e Svezia nel 1995. Per questo motivo, nel 1999, al sorgere della moneta unica, la Comunità europea da 6 era passata già a 15 Stati membri. Nel 2004, poi, il territorio dell’Unione si era nuovamente esteso ad altri 10 Stati: Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Fino ad introdurre nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, e nel 2013, la Croazia, con la quale l’attuale Ue ha raggiunto il numero di 28 Paesi membri.

Come sopra accennato, ad eccezione di Danimarca e Regno Unito, che dispongono di clausole di non partecipazione, chiamate opt-out ovvero “rinuncia” o “deroga”, stabilite con appositi protocolli attraverso i quali un Paese concorda di non partecipare a una parte della legislazione o dei trattati dell’Unione europea, salvo poter decidere di aderire in futuro, tutti gli Stati membri, oggi, sono tenuti ad adottare la moneta comune ed entrare a far parte dell’area dell’euro una volta soddisfatti i criteri di “convergenza”, ossia condizioni economiche e giuridiche che sono state concordate nel Trattato di Maastricht.

Attualmente, la Svezia è ancora fuori dall’Eurozona, insieme ad alcuni Stati membri che hanno aderito all’Unione dopo l’introduzione dell’euro nel 2002. Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Svezia si sono infatti impegnate a entrare a far parte dell’area euro non appena ricorreranno i criteri di ammissione. Per il momento, sono considerati Stati membri con una “deroga”.

L’Eurozona si distingue infatti dalle altre aree dell’Ue per la sua gestione economica. Dalla Commissione europea sappiamo che la politica monetaria nella zona euro è di competenza dell’Eurosistema, un organismo indipendente composto dalla Banca centrale europea (Bce), con sede a Francoforte, in Germania, e dalle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’Eurozona. La Bce definisce la sua politica monetaria attraverso il Consiglio direttivo e con l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi. I governi nazionali, anche se mantengono la competenza della propria politica economica, debbono necessariamente provvedere a coordinarla affinché siano rispettati gli obiettivi comuni di stabilità, crescita e occupazione. Il coordinamento viene realizzato attraverso una serie di strutture e strumenti. Un esempio consiste nel patto di stabilità che prevede regole concordate per la disciplina di bilancio, come i limiti del disavanzo e del debito nazionale che, se non rispettati, possono portare a sanzioni anche di tipo finanziario. L’attuazione della gestione economica dell’Ue è organizzata ogni anno in un doppio ciclo chiamato “semestre europeo”.

Le decisioni più importanti dell’Unione europea, invece, vengono prese attraverso tre principali istituzioni: il Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini e viene eletto direttamente da questi, la Commissione europea, che delinea gli interessi dell’Europa e i cui membri sono nominati dai governi nazionali, e il Consiglio dell’Ue, che stabilisce le priorità generali dell’Unione e rappresenta i governi dei singoli Stati membri. A queste si aggiungono, poi, la Corte di Giustizia, che fa rispettare il diritto europeo e la Corte dei conti che verifica il finanziamento dell’attività dell’Ue.

Uno dei maggiori risultati raggiunti dall’Unione europea è la realizzazione dello “spazio Schengen”, vale a dire di un’area senza frontiere interne nella quale i cittadini Ue, molti cittadini di Paesi terzi, chi viaggia per affari o turismo possono circolare liberamente senza essere sottoposti ai controlli di frontiera. Attualmente lo spazio Schengen comprende quasi tutti i Paesi dell’Unione, fatta eccezione per Irlanda, Regno Unito, Cipro, Bulgaria, Romania e Croazia, e alcuni stati associati non Ue quali Islanda, Lichtenstein, Norvegia e Svizzera.

Avvocato Jacopo Pitorri

“Mater”: storie di mamme e bambini migranti

Nel sud della regione Campania, al confine con la Basilicata, vi è una caratteristica zona, un folto lembo pianeggiante, dal nome Il Vallo di Diano, altrimenti detto Valdiano. Qui è stato realizzato un progetto esemplare ad opera delle Cooperative Sociali “Il Sentiero”, “Tertium Millennium” e “l’Opera di un Altro”, con la partecipazione dei Comuni di Atena Lucana, Bellosguardo, Roccadaspide, Sacco e Santa Marina, titolari dei progetti Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Il nome del progetto è “Mater”. Si tratta di un peculiare viaggio tra le storie di mamme e bambini migranti, appunto, nel Valdiano.

Nel sud della regione Campania, al confine con la Basilicata, vi è una caratteristica zona, un folto lembo pianeggiante, dal nome Il Vallo di Diano, altrimenti detto Valdiano. Qui è stato realizzato un progetto esemplare ad opera delle Cooperative Sociali “Il Sentiero”, “Tertium Millennium” e “l’Opera di un Altro”, con la partecipazione dei Comuni di Atena Lucana, Bellosguardo, Roccadaspide, Sacco e Santa Marina, titolari dei progetti Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Il nome del progetto è “Mater”. Si tratta di un peculiare viaggio tra le storie di mamme e bambini migranti, appunto, nel Valdiano.

“Mater” non rappresenta il banale, consueto calendario che  mostra  donne alla moda  e ammiccanti, ragazze avvenenti  o studentesse bellissime, bensì un documento fotografico che narra altre donne, estremamente differenti da quelle comuni, per trascorso ed esperienze, in costante lotta con il quotidiano, con l’esistenza.

Si tratta, per lo più, di un’operazione che ingloba sia etica, che estetica, oltre ad umanità, spirito di solidarietà, rilevanza sociale, integrazione, senso di responsabilità. E, più di ogni altra cosa, riguarda un disegno che traccia chiaramente le linee per sviluppare accoglienza, fiducia e fratellanza comune.

“Mater” è, in buona sostanza,  l’opera fotografica che racconta la vita e la maternità delle donne migranti di Atena Lucana, Bellosguardo, Roccadaspide, Sacco, Santa Marina. Un progetto-viaggio nei luoghi e nelle realtà di accoglienza nel Sud, un itinerario civile nel Vallo di Diano attraverso sguardi e scatti, cui hanno partecipato ventuno donne e trentasei bambini provenienti dalla Nigeria, dal Mali, dalla Costa d’Avorio, dalla Siria, dal Pakistan. Bimbi sbarcati in Italia e arrivati attraverso i corridoi umanitari o i programmi di reinsediamento che, diversamente, sarebbero rimasti figure ignote a chiunque. Bambini in fuga, perfino quando erano ancora nel ventre delle loro mamme, venuti al mondo successivamente nei presidi ospedalieri di Polla, di Sapri, di Battipaglia, Salerno.

“Mater” ci parla di donne, madri,  provate da trascorsi drammatici e dai nubifragi della vita, hanno trovato un attracco sicuro, attraverso il mare, per dare certezze ed assicurare un futuro migliore per sé e per i propri figli.

“Mater”, quindi, rivolge il suo sguardo a realtà minori,  regalando un cammino di esperienza, cultura e apprendimento volto al fenomeno migratorio. E lo fa ponendo l’attenzione su donne migranti e sulla loro condizione di madri. Non solo. Vi è da dire che alle varie fotografie che costituiscono il progetto, si accostano sintetici testi descrittivi sull’accoglienza presente sui diversi territori: gli inserimenti scolastici, i laboratori di formazione, le attività di animazione, i tirocini formativi.

In conclusione “Mater” è testimonianza reale dello sprigionarsi della volontà di una convivenza accogliente, solidale, umana.

E’ un’opera che racchiude la sinergia, l’impegno condiviso tra istituzioni e terzo settore, una testimonianza concreta, reale, viva dell’accoglienza in atto, con la presenza di tante famiglie con bambini.  Certamente una significativa esperienza di integrazione, che potrebbe fungere da esempio per molte persone, in diversi ambiti.

Nel sud della regione Campania, al confine con la Basilicata, vi è una caratteristica zona, un folto lembo pianeggiante, dal nome Il Vallo di Diano, altrimenti detto Valdiano. Qui è stato realizzato un progetto esemplare ad opera delle Cooperative Sociali “Il Sentiero”, “Tertium Millennium” e “l’Opera di un Altro”, con la partecipazione dei Comuni di Atena Lucana, Bellosguardo, Roccadaspide, Sacco e Santa Marina, titolari dei progetti Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Il nome del progetto è “Mater”. Si tratta di un peculiare viaggio tra le storie di mamme e bambini migranti, appunto, nel Valdiano.

“Mater” non rappresenta il banale, consueto calendario che mostra donne alla moda  e ammiccanti, ragazze avvenenti  o studentesse bellissime, bensì un documento fotografico che narra altre donne, estremamente differenti da quelle comuni, per trascorso ed esperienze, in costante lotta con il quotidiano, con l’esistenza.

Si tratta, per lo più, di un’operazione che ingloba sia etica, che estetica, oltre ad umanità, spirito di solidarietà, rilevanza sociale, integrazione, senso di responsabilità. E, più di ogni altra cosa, riguarda un disegno che traccia chiaramente le linee per sviluppare accoglienza, fiducia e fratellanza comune.

“Mater” è, in buona sostanza, l’opera fotografica che racconta la vita e la maternità delle donne migranti di Atena Lucana, Bellosguardo, Roccadaspide, Sacco, Santa Marina. Un progetto-viaggio nei luoghi e nelle realtà di accoglienza nel Sud, un itinerario civile nel Vallo di Diano attraverso sguardi e scatti, cui hanno partecipato ventuno donne e trentasei bambini provenienti dalla Nigeria, dal Mali, dalla Costa d’Avorio, dalla Siria, dal Pakistan. Bimbi sbarcati in Italia e arrivati attraverso i corridoi umanitari o i programmi di reinsediamento che, diversamente, sarebbero rimasti figure ignote a chiunque. Bambini in fuga, perfino quando erano ancora nel ventre delle loro mamme, venuti al mondo successivamente nei presidi ospedalieri di Polla, di Sapri, di Battipaglia, Salerno.

“Mater” ci parla di donne, madri, provate da trascorsi drammatici e dai nubifragi della vita, hanno trovato un attracco sicuro, attraverso il mare, per dare certezze ed assicurare un futuro migliore per sé e per i propri figli.

“Mater”, quindi, rivolge il suo sguardo a realtà minori, regalando un cammino di esperienza, cultura e apprendimento volto al fenomeno migratorio. E lo fa ponendo l’attenzione su donne migranti e sulla loro condizione di madri. Non solo. Vi è da dire che alle varie fotografie che costituiscono il progetto, si accostano sintetici testi descrittivi sull’accoglienza presente sui diversi territori: gli inserimenti scolastici, i laboratori di formazione, le attività di animazione, i tirocini formativi.

In conclusione, “Mater” è testimonianza reale dello sprigionarsi della volontà di una convivenza accogliente, solidale, umana.

È un’opera che racchiude la sinergia, l’impegno condiviso tra istituzioni e terzo settore, una testimonianza concreta, reale, viva dell’accoglienza in atto, con la presenza di tante famiglie con bambini.  Certamente una significativa esperienza di integrazione, che potrebbe fungere da esempio per molte persone, in diversi ambiti.

Avv. Iacopo Maria Pitorri


Asilo politico ed Unione Europea

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In materia di asilo, l’obiettivo della politica dell’Unione Europea è quello di offrire uno status appropriato a qualunque cittadino di un paese terzo, che abbia bisogno di protezione internazionale in uno degli Stati membri. Per raggiungere tale finalità, l’UE sta vagliando come migliorare il sistema comune europeo di asilo.

La politica da porre in essere per il raggiungimento di tale obiettivo, ovviamente, deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al Protocollo del 31 gennaio 1967. Si è cercato, allora, innanzitutto, in una prima fase di sviluppo sia del processo che delle metodologie da adottare, di dar luogo ad un sistema europeo comune di asilo (CEAS).

Attualmente, nel proseguire costantemente il lavoro di perfezionamento del procedimento, si continuano a delineare le fasi verso una riforma del CEAS, il tutto tramite iniziative legislative e discussioni tra il Parlamento e il Consiglio.

In particolare, dalla fine del 2016, il Parlamento ha raggiunto un accordo provvisorio con il Consiglio, puntando ad una trasformazione dell’EASO da un’agenzia di sostegno dell’UE ad una vera e propria agenzia dell’Unione Europea per l’asilo (EUAA), incaricata di agevolare il funzionamento del CEAS. Ciò al fine di assicurare la convergenza nella valutazione delle domande di asilo in tutta l’UE e di monitorare l’applicazione operativa e tecnica del diritto dell’Unione.

Nel settembre 2018 la Commissione ha presentato una proposta modificata per rafforzare l’EUAA attraverso un incremento del personale, degli strumenti e delle risorse finanziarie, in modo da garantire che gli Stati membri possano contare in qualsiasi momento sul completo sostegno operativo dell’UE.

Al di là dell’Europa, va evidenziato che, a livello mondiale, da oltre due anni, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la dichiarazione di New York per i rifugiati e i migranti, una importante dichiarazione politica volta a migliorare il modo in cui la comunità internazionale risponde ai grandi spostamenti di rifugiati e migranti, nonché a situazioni di presenza prolungata dei rifugiati. Ciò stabilendo, a favore dei rifugiati, azioni specifiche da intraprendere al fine di alleviare la pressione che grava sui paesi ospitanti, accrescimento di autonomia dei rifugiati nei paesi terzi, linee guida per il raggiungimento di soluzioni che prevedono il coinvolgimento di paesi terzi.

Alla luce di quanto sopra detto, nella sua sessione plenaria di aprile 2018, pertanto, il Parlamento europeo ha dichiarato che l’UE e i suoi Stati membri devono assumere un ruolo di guida nei negoziati in corso a livello mondiale anche in considerazione della decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dai negoziati.

Tenendo conto, dunque, nella realtà dei fatti, di elementi concreti, si rileva che da Bruxelles, più specificamente dall’Ufficio europeo per il sostegno all’asilo, giungono dati recenti dai quali si evince che dell’Unione Europea non sussiste più uno stato di emergenza. Nel 2018, invero, sono state presente 634.700 richieste di asilo in Europa. Una cifra pari al 10% in meno a quella del 2017. Circa il 4% delle domande presentate nel 2018, pari a 25.388 richieste inoltrate, ha riguardato minori non accompagnati, soprattutto provenienti da Gambia e Vietnam.

I richiedenti asilo più numerosi sono stati i siriani. Rileva l’EASO che nel 2018 circa 74.800 domande di protezione internazionale sono state presentate da cittadini del Paese mediorientale. Numeri comunque in calo rispetto ai dati del 2017.

Ulteriormente si specifica che i tre principali paesi di origine (rappresentanti il 26% di tutte le domande nel 2018) sono stati Afghanistan (45.300 domande), Iraq (42.100 domande), Siria. Tra i primi dieci paesi di origine figurano anche Pakistan (5%), Iran, Nigeria, Turchia, Venezuela (4% ciascuno), Albania e Georgia (3% ciascuno).

Va altresì sottolineato, continuando a parlare di dati, che lo scorso anno gli Stati membri dell’Ue hanno emesso circa 593.500 decisioni di prima istanza nel 2018, per l’EASO: un significativo 40% in meno rispetto al 2017.

Avv. Pitorri 

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I migranti alla porta occidentale d’Italia

Ventimiglia, comune italiano della provincia di Imperia, in Liguria, per definizione “la porta occidentale d’Italia”, è stata teatro di un episodio drammatico accaduto oggi, 14 febbraio 2019.

Ventimiglia, comune italiano della provincia di Imperia, in Liguria, per definizione “la porta occidentale d’Italia”, è stata teatro di un episodio drammatico accaduto oggi, 14 febbraio 2019.

Diversi passeggeri che si trovavano su un treno partito stamani, per l’appunto da Ventimiglia, e diretto a Nizza, hanno ripreso l’intervento di alcuni gendarmi  – della polizia francese – che con la forza hanno scardinato la porta di una delle toilette in cui si erano nascosti tre migranti, nella speranza di riuscire a raggiungere la Francia.

Secondo quanto narrato da alcuni testimoni, i gendarmi in questione avrebbero posto in essere atteggiamenti vessatori, spruzzando addirittura qualcosa, verosimilmente spray urticante, che ha raggiunto anche i viaggiatori presenti nella carrozza,  provocando loro bruciori, tosse, perfino attimi di confusione e panico. Il tutto per arrivare alla triste finalità di far scendere dal convoglio le tre persone. Ciò è  avvenuto, presso la stazione di Menton Garavan.

Non vi è dubbio che quanto accaduto questa mattina sul treno partito da Ventimiglia potrebbe creare  non pochi problemi – anche tra Italia e Francia – considerando che l’accaduto verificatosi è estremamente grave.

A Ventimiglia, qualche mese fa, si è già verificato un increscioso episodio, dal quale erano scaturite diverse polemiche. La titolare di un locale della cittadina ligure, infatti, quasi sessantenne, ha sempre fatto il possibile per dare un aiuto agli stranieri, di passaggio verso la Francia.

La sua lotta ha avuto inizia tre anni fa, quando la piccola comunità di Ventimiglia è rimasta coinvolta nei flussi di migranti che dall’Italia tentano di raggiungere il resto dell’Europa. Pur contro alcuni boicottaggi della gente del posto (che ha fatto chiudere le fontane per impedire a queste persone meno fortunate di lavarsi, che ha reso i bagni pubblici a pagamento, che si è attivata per fare ostruzionismo di ogni genere, nei loro confronti), la titolare del locale, aperto quindici anni fa, oltre a continuare ad offrire caffè e brioche agli abitanti della zona che lavorano e circolano nelle vicinanze della stazione, è diventata un punto di riferimento, per oltre mille persone al giorno. Tutto questo nonostante abbia dovuto fare i conti con la minaccia di chiusura del proprio locale.

Ci sono state diverse mattine,  in quel bar,  in cui alla parlata ventimigliese si è associata quella araba, francese e quella inglese, e non più solo davanti a un cappuccino a leggere il giornale, ma a compilare documenti, bonifici alla posta per rinnovare il permesso di soggiorno, a ricaricare i telefoni per avvisare le famiglie e addirittura ad imparare le prime parole in italiano.

Costantemente, con caparbietà e perseveranza, la titolare del locale ha continuato a preparare un piatto caldo per i migranti affamati, ad offrire caramelle e patatine ai migranti più piccoli, a mettere a disposizione la corrente del negozio per ricaricare i telefoni e permettere agli stessi di parlare con le proprie famiglie. E poco importa se la popolazione di Ventimiglia ha cominciato a disertare il bar, se per strada hanno minacciato la gentile signora, se di notte hanno provato a bloccare le porte del locale per ostacolare l’attività.

Lei ha visto uomini e donne piangere per aver perso la moglie o il marito in mare, bambini soffrire e vivere di dolore, gente che non mangiava da giorni, persone che pur di arrivare a destinazione, auspicando in una vita migliore, hanno affrontato lunghi, terribili viaggi.

La infaticabile signora non ha voltato le spalle a queste persone, sostenendo che, innanzitutto, il bar è un pubblico esercizio, dove ha diritto ad entrare chiunque, applicando poi i più elementari principi di solidarietà, responsabilità, ospitalità, aiuto per coloro che si trovano in difficoltà.  

Ventimiglia, comune italiano della provincia di Imperia, in Liguria, per definizione “la porta occidentale d’Italia”, è stata teatro di un episodio drammatico accaduto oggi, 14 febbraio 2019.

Diversi passeggeri che si trovavano su un treno partito stamani, per l’appunto da Ventimiglia, e diretto a Nizza, hanno ripreso l’intervento di alcuni gendarmi  – della polizia francese – che con la forza hanno scardinato la porta di una delle toilette in cui si erano nascosti tre migranti, nella speranza di riuscire a raggiungere la Francia.

Secondo quanto narrato da alcuni testimoni, i gendarmi in questione avrebbero posto in essere atteggiamenti vessatori, spruzzando addirittura qualcosa, verosimilmente spray urticante, che ha raggiunto anche i viaggiatori presenti nella carrozza,  provocando loro bruciori, tosse, perfino attimi di confusione e panico. Il tutto per arrivare alla triste finalità di far scendere dal convoglio le tre persone. Ciò è  avvenuto, presso la stazione di Menton Garavan.

Non vi è dubbio che quanto accaduto questa mattina sul treno partito da Ventimiglia potrebbe creare  non pochi problemi – anche tra Italia e Francia – considerando che l’accaduto verificatosi è estremamente grave.

A Ventimiglia, qualche mese fa, si è già verificato un increscioso episodio, dal quale erano scaturite diverse polemiche. La titolare di un locale della cittadina ligure, infatti, quasi sessantenne, ha sempre fatto il possibile per dare un aiuto agli stranieri, di passaggio verso la Francia.

La sua lotta ha avuto inizia tre anni fa, quando la piccola comunità di Ventimiglia è rimasta coinvolta nei flussi di migranti che dall’Italia tentano di raggiungere il resto dell’Europa. Pur contro alcuni boicottaggi della gente del posto (che ha fatto chiudere le fontane per impedire a queste persone meno fortunate di lavarsi, che ha reso i bagni pubblici a pagamento, che si è attivata per fare ostruzionismo di ogni genere, nei loro confronti), la titolare del locale, aperto quindici anni fa, oltre a continuare ad offrire caffè e brioche agli abitanti della zona che lavorano e circolano nelle vicinanze della stazione, è diventata un punto di riferimento, per oltre mille persone al giorno. Tutto questo nonostante abbia dovuto fare i conti con la minaccia di chiusura del proprio locale.

Ci sono state diverse mattine,  in quel bar,  in cui alla parlata ventimigliese si è associata quella araba, francese e quella inglese, e non più solo davanti a un cappuccino a leggere il giornale, ma a compilare documenti, bonifici alla posta per rinnovare il permesso di soggiorno, a ricaricare i telefoni per avvisare le famiglie e addirittura ad imparare le prime parole in italiano.

Costantemente, con caparbietà e perseveranza, la titolare del locale ha continuato a preparare un piatto caldo per i migranti affamati, ad offrire caramelle e patatine ai migranti più piccoli, a mettere a disposizione la corrente del negozio per ricaricare i telefoni e permettere agli stessi di parlare con le proprie famiglie. E poco importa se la popolazione di Ventimiglia ha cominciato a disertare il bar, se per strada hanno minacciato la gentile signora, se di notte hanno provato a bloccare le porte del locale per ostacolare l’attività.

Lei ha visto uomini e donne piangere per aver perso la moglie o il marito in mare, bambini soffrire e vivere di dolore, gente che non mangiava da giorni, persone che pur di arrivare a destinazione, auspicando in una vita migliore, hanno affrontato lunghi, terribili viaggi.

La infaticabile signora non ha voltato le spalle a queste persone, sostenendo che, innanzitutto, il bar è un pubblico esercizio, dove ha diritto ad entrare chiunque, applicando poi i più elementari principi di solidarietà, responsabilità, ospitalità, aiuto per coloro che si trovano in difficoltà.  

Avv. Iacopo Maria Pitorri

La morte nel mediterraneo

Percorrendo la rotta Libia/Europa, si è passati da un decesso ogni 38 arrivi nel 2017, a uno ogni 14 nel 2018. In totale sono state stimate in 2.275 il numero delle vittime morte o disperse nell’affrontare la traversata nel 2018. Tutto ciò, nonostante vi sia stato un calo degli arrivi sulle coste della nostra Europa.

Percorrendo la rotta Libia/Europa, si è passati da un decesso ogni 38 arrivi nel 2017, a uno ogni 14 nel 2018. In totale sono state stimate in 2.275 il numero delle vittime morte o disperse nell’affrontare la traversata nel 2018. Tutto ciò, nonostante vi sia stato un calo degli arrivi sulle coste della nostra Europa.

Vi è da dire,  che non è solo in mare che persone meno fortunate di noi vanno incontro alla morte. Sulle rotte terrestri (Turchia-Grecia, Francia-Italia, Balcani occidentali), invero, i decessi di immigrati e rifugiati sono quasi raddoppiati: 136 contro i 75 dell’anno precedente. Come se non bastasse, il rapporto della nota Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati rivela che l’85% di coloro che partono dalla Libia viene riportato indietro dalla guardia costiera e rinchiuso in carcere in condizioni orribili e davvero spaventose. 

Nel resoconto informativo in questione si sottolinea la drammaticità dei viaggi affrontati da gran parte dei profughi, maltrattati, esposti a violenze, torture, stupri e aggressioni sessuali, minacciati e sequestrati a scopo d’estorsione. I trafficanti di esseri umani, privi di qualsivoglia scrupolo, volendo eludere la politica italiana dei “porti chiusi” sembrano aver cambiato strategia e rotta. E così, rivela il suddetto rapporto, per la prima volta in anni recenti, la Spagna è divenuta il principale punto d’ingresso in Europa con 8.000 arrivi via terra e altri 54.800 via mare. Con il conseguente incremento del numero delle vittime nel Mediterraneo occidentale, che è quasi quadruplicato, da 202 nel 2017 a 777 lo scorso anno. In Italia, invece, sono arrivate 23.400 persone, 32.500 in Grecia, per la maggior parte attraverso il confine terrestre con la Turchia

Relativamente agli Stati di provenienza, la maggioranza dei migranti arrivati in Spagna sono partiti: da Marocco (13.000), Guinea (13.000), Mali (10.300), Algeria (5.800), Costa D’Avorio (5.300); quelli arrivati in Grecia: da Afghanistan (9.000), Siria (7.900), Iraq (5.900), Repubblica democratica del Congo (1.800), Palestina (1.600); quelli arrivati in Italia: da Tunisia (5.200) Eritrea (3.300), Iraq (1.700), Sudan (1,600), Pakistan (1600). 

Si ritiene che tali flussi verso l’Europa si protrarranno immutati anche nel corso del 2019, in virtù del fatto che le continue violazioni dei diritti umani, i conflitti, ovvero la povertà dilagante, continueranno ad essere le cause scatenanti, alla base dei movimenti migratori.

I migranti, stante la drammaticità delle condizioni in cui vivono quotidianamente, nell’affrontare quei terribili viaggi, rischiosissimi, verso una vita migliore, in contesti critici e spesso tragici, auspicano in una richiesta di asilo, in  protezione internazionale, ovvero assistenza umanitaria. Chiedono tutela per i minori, sostegno a chi ha subito abusi e violenza sessuale, sperando di imbattersi in persone che orientino lo spirito verso i valori della condivisione e della responsabilità, della solidarietà e della collaborazione.

Salvare vite umane non costituisce nè una scelta, tantomeno una questione politica ma un imperativo imprescindibile. D’altra parte, se ci fermassimo a riflettere, anche solo per un momento, potremmo giungere alla constatazione secondo cui, essenzialmente, siamo tutti dei migranti, atteso che la vita è una costante ricerca di qualcosa e/o di qualcuno. Spesso “l’altro”, lo straniero, il migrante fa paura perché costituisce una realtà a noi ignota, ma questa immagine può e deve essere cambiata, in meglio, da chiunque ne abbia la possibilità e, soprattutto, l’intento.

Percorrendo la rotta Libia/Europa, si è passati da un decesso ogni 38 arrivi nel 2017, a uno ogni 14 nel 2018. In totale sono state stimate in 2.275 il numero delle vittime morte o disperse nell’affrontare la traversata nel 2018. Tutto ciò, nonostante vi sia stato un calo degli arrivi sulle coste della nostra Europa.

Vi è da dire,  che non è solo in mare che persone meno fortunate di noi vanno incontro alla morte. Sulle rotte terrestri (Turchia-Grecia, Francia-Italia, Balcani occidentali), invero, i decessi di immigrati e rifugiati sono quasi raddoppiati: 136 contro i 75 dell’anno precedente. Come se non bastasse, il rapporto della nota Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati rivela che l’85% di coloro che partono dalla Libia viene riportato indietro dalla guardia costiera e rinchiuso in carcere in condizioni orribili e davvero spaventose. 

Nel resoconto informativo in questione si sottolinea la drammaticità dei viaggi affrontati da gran parte dei profughi, maltrattati, esposti a violenze, torture, stupri e aggressioni sessuali, minacciati e sequestrati a scopo d’estorsione. I trafficanti di esseri umani, privi di qualsivoglia scrupolo, volendo eludere la politica italiana dei “porti chiusi” sembrano aver cambiato strategia e rotta. E così, rivela il suddetto rapporto, per la prima volta in anni recenti, la Spagna è divenuta il principale punto d’ingresso in Europa con 8.000 arrivi via terra e altri 54.800 via mare. Con il conseguente incremento del numero delle vittime nel Mediterraneo occidentale, che è quasi quadruplicato, da 202 nel 2017 a 777 lo scorso anno. In Italia, invece, sono arrivate 23.400 persone, 32.500 in Grecia, per la maggior parte attraverso il confine terrestre con la Turchia

Relativamente agli Stati di provenienza, la maggioranza dei migranti arrivati in Spagna sono partiti: da Marocco (13.000), Guinea (13.000), Mali (10.300), Algeria (5.800), Costa D’Avorio (5.300); quelli arrivati in Grecia: da Afghanistan (9.000), Siria (7.900), Iraq (5.900), Repubblica democratica del Congo (1.800), Palestina (1.600); quelli arrivati in Italia: da Tunisia (5.200) Eritrea (3.300), Iraq (1.700), Sudan (1,600), Pakistan (1600). 

Si ritiene che tali flussi verso l’Europa si protrarranno immutati anche nel corso del 2019, in virtù del fatto che le continue violazioni dei diritti umani, i conflitti, ovvero la povertà dilagante, continueranno ad essere le cause scatenanti, alla base dei movimenti migratori.

I migranti, stante la drammaticità delle condizioni in cui vivono quotidianamente, nell’affrontare quei terribili viaggi, rischiosissimi, verso una vita migliore, in contesti critici e spesso tragici, auspicano in una richiesta di asilo, in  protezione internazionale, ovvero assistenza umanitaria. Chiedono tutela per i minori, sostegno a chi ha subito abusi e violenza sessuale, sperando di imbattersi in persone che orientino lo spirito verso i valori della condivisione e della responsabilità, della solidarietà e della collaborazione.

Salvare vite umane non costituisce nè una scelta, tantomeno una questione politica ma un imperativo imprescindibile. D’altra parte, se ci fermassimo a riflettere, anche solo per un momento, potremmo giungere alla constatazione secondo cui, essenzialmente, siamo tutti dei migranti, atteso che la vita è una costante ricerca di qualcosa e/o di qualcuno. Spesso “l’altro”, lo straniero, il migrante fa paura perché costituisce una realtà a noi ignota, ma questa immagine può e deve essere cambiata, in meglio, da chiunque ne abbia la possibilità e, soprattutto, l’intento.

Avv. Iacopo Maria Pitorri