I migranti tornati in Libia

Quindici ore in mare e poi il ritorno in Libia, in un paese dilaniato dalla guerra civile, dove i centri di detenzione per migranti sono in piena area di scontri tra le milizie. Così la fine del dramma dei venti migranti (tra cui donne  e bambini), che, all’alba di qualche giorno fa,  dopo aver visto morire in mare otto loro compagni di traversata, dopo aver visto il gommone su cui erano imbarcare acqua, avevano lanciato un disperato grido d’allarme attraverso il sito di Alarm phone (la piattaforma che aiuta i migranti nel Mediterraneo, nata nel 2014), chiedendo di essere soccorsi e di non essere riportati in Libia.

Una lunghissima attesa per tutta la giornata su di una imbarcazione alla deriva, senza motore, in attesa di soccorsi mai arrivati e poi, in serata, l’intervento della guardia costiera libica che li ha presi a bordo e riportati indietro.

In un primo momento non sembrava che in zona vi fosse alcun mezzo della guardia costiera. Mediterranea aveva chiesto che si andasse a prestare immediato soccorso ma, in assenza ormai anche delle navi militari di Sophia, il dispositivo di aiuti in mare è del tutto inesistente. La Mediterranea Saving Human (che ha sempre sostenuto “Nel momento in cui vedi delle persone affogare è obbligo del Diritto internazionale marittimo soccorrerle”), tuttavia, ha continuato a ribadire quanto fosse necessario salvare quelle persone in difficoltà.

Dalla inevitabile polemica emersa dalle agenzie della Nazioni unite – Oim e Unhcr –   si è immediatamente diffusa la preoccupazione per la carenza di soccorsi, posto che si ritiene la Libia non  un posto sicuro. Il tutto con il supporto, ovviamente, delle Ong.

Il governo olandese, invece, ha bloccato la Sea Watch 3, a causa di una “modifica legislativa”. Eppure, probabilmente, la nave sarebbe stata in grado di salvare quelle vite.

Nonostante Moonbird, l’aeromobile della Ong Seawatch, avesse avvistato la barca di legno blu mentre stava andando alla deriva, vicino al confine libico-tunisino, confermando la presenza di venti persone a bordo, e nessun motore, e nonostante fosse proprio la Libia il paese da cui erano scappate, disperate, quelle persone sono state ivi riconsegnate.

Un epilogo davvero infelice.

Avv. Iacopo Pitorri

Il tema dei migranti nella foto dell’anno

Quest’anno, in occasione del World Press Photo, la giuria ha scelto una delle immagini simbolo del 2018 come foto-notizia dell’anno: “La bambina che piange al confine” di John Moore. L’immagine, scattata il 12 giugno 2018 in Texas, città di confine tra Usa e Messico, ha da subito suscitato una immensa emozione tra la gente. Dalla foto, che ha fatto il giro del mondo, è emersa la questione dei minori separati dalle famiglie dei migranti, giunti al confine statunitense. Viene mostrata la bambina honduregna – Yanela Sanchez – che piange tra le gambe di sua madre Sandra, mentre la donna viene perquisita da un agente. Successivamente alla sua pubblicazione, le autorità di frontiera degli Stati Uniti hanno emesso un comunicato per dire che Yanela e sua madre non erano tra le migliaia di famiglie che erano state separate all’ingresso nel Paese.

L’autore della celebre foto, vincitrice del World Press Photo 2019, è John Moore, fotografo e corrispondente speciale per Getty Image (un’agenzia fotografica con sede a Seattle, negli Stati Uniti.). Moore ha fotografato in ben sessantacinque paesi del mondo e sei continenti. Le sue foto sono pubblicate a livello internazionale da diciassette anni. Da quando è tornato negli Stati Uniti, nel 2008, la sua attenzione si è riversata sulla questione dell’immigrazione e sui problemi della frontiera. La fotografia che gli ha dato il premio mondiale quest’anno, infatti, narra la storia dei deboli e sfortunati, facendo risaltare sentimenti, aspetti emotivi e, verosimilmente, la violenza psicologica subita.

Gli organizzatori del noto concorso fotografico, per il 2019 hanno voluto introdurre un premio speciale con l’obiettivo di porre al centro dell’attenzione non solo le immagini, ma anche i reportage fotografici che raccontano storie importanti. La giuria ha scelto “The Migrant Caravan” di Pieter Ten Hoopen come “World Press Photo Story of the Year”. Più specificamente, la serie documenta la più grande carovana di migranti nella storia recente del continente nordamericano, con ben settemila persone, tra cui almeno duemilatrecento bambini. La carovana, partita da San Pedro Sula (in Honduras), lo scorso 12 ottobre, e con il tam-tam e il passaparola, ha richiamato via via persone provenienti dal Nicaragua, da El Salvador e dal Guatemala.

Pieter Ten Hoopen, celebre fotografo a livello mondiale, lavora per Agency VU a Parigi, ed è anche fondatore della società “Civilian Act” di Stoccolma.  Ha seguito guerre e crisi umanitarie dal 2004.

Dalla foto emerge un gran senso di dignità, oltre al vero, profondo significato della parola speranza.

Avv. Iacopo Pitorri

I migranti arrivano a Lampedusa dalla Libia

Settanta migranti, quasi tutti tunisini (tra cui una donna), diciassette libici, in fuga dalla guerra civile, a bordo di un barcone diretto a Lampedusa, giungono, in data 11 aprile 2019, sull’isola di Lampedusa. Una motovedetta della Guardia di Finanza, ed una della Guardia costiera, hanno provveduto al trasbordo degli stessi sulle due imbarcazioni, dirette, appunto, verso l’isola siciliana.

Settanta migranti,quasi tutti tunisini (tra cui una donna), diciasette libici, in fuga dalla guerra civile, a bordo di un barcone diretto a Lampedusa, giungono, in data 11 aprile 2019, sull’isola di Lampedusa. Una motovedetta della Guardia di Finanza, ed una della Guardia costiera, hanno provveduto al trasbordo degli stessi sulle due imbarcazioni, dirette, appunto, verso l’isola siciliana.

 Si rammenta che, per disposizione del Governo, i porti italiani sono chiusi. Tuttavia, quando l’imbarcazione è stata intercettata si trovava già in acque italiane. Le forze dell’ordine, pertanto, altro non hanno potuto fare, se non prendere i migranti a bordo e portarli verso l’isola italiana. A dire del Viminale, sono già in corso le operazioni volte ad espellere i settanta migranti. Le procedure di espulsione e rimpatrio, tuttavia, richiedono per legge alcuni mesi.

Oltre ciò, sia l’Unicef (il fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia), che l’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, per la loro protezione internazionale ed assistenza materiale) chiedono, e con urgenza, l’autorizzazione per lo sbarco dei sessantadue migranti che da ben  nove giorni sono a bordo della Alan Kurdi della Sea Eye, al largo delle acque maltesi. Si continua a ribadire la assoluta priorità di salvare vite umane in mare, nonché di  assicurare un luogo di sbarco sicuro e tempestivo. Il tutto, sottolineando che la situazione in Libia rende assolutamente necessario stabilire meccanismi di sbarco in paesi sicuri, i quali siano in linea con tutte le convenzioni internazionali.

Intanto, il naufragio di una ventina di migranti a bordo di un barcone partito dalle coste della Libia, ad opera dei trafficanti di vita umana, si conclude con l’intervento della Guardia costiera libica. La preghiera di disperazione dei migranti a bordo del gommone, di giungere in Italia, non è stata ascoltata. Grande delusione da parte delle Ong.

Settanta migranti, quasi tutti tunisini (tra cui una donna), diciassette libici, in fuga dalla guerra civile, a bordo di un barcone diretto a Lampedusa, giungono, in data 11 aprile 2019, sull’isola di Lampedusa. Una motovedetta della Guardia di Finanza, ed una della Guardia costiera, hanno provveduto al trasbordo degli stessi sulle due imbarcazioni, dirette, appunto, verso l’isola siciliana.

 Si rammenta che, per disposizione del Governo, i porti italiani sono chiusi. Tuttavia, quando l’imbarcazione è stata intercettata si trovava già in acque italiane. Le forze dell’ordine, pertanto, altro non hanno potuto fare, se non prendere i migranti a bordo e portarli verso l’isola italiana. A dire del Viminale, sono già in corso le operazioni volte ad espellere i settanta migranti. Le procedure di espulsione e rimpatrio, tuttavia, richiedono per legge alcuni mesi.

Oltre ciò, sia l’Unicef (il fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia), che l’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, per la loro protezione internazionale ed assistenza materiale) chiedono, e con urgenza, l’autorizzazione per lo sbarco dei sessantadue migranti che da ben nove giorni sono a bordo della Alan Kurdi della Sea Eye, al largo delle acque maltesi. Si continua a ribadire la assoluta priorità di salvare vite umane in mare, nonché di assicurare un luogo di sbarco sicuro e tempestivo. Il tutto, sottolineando che la situazione in Libia rende assolutamente necessario stabilire meccanismi di sbarco in paesi sicuri, i quali siano in linea con tutte le convenzioni internazionali.

Intanto, il naufragio di una ventina di migranti a bordo di un barcone partito dalle coste della Libia, ad opera dei trafficanti di vita umana, si conclude con l’intervento della Guardia costiera libica. La preghiera di disperazione dei migranti a bordo del gommone, di giungere in Italia, non è stata ascoltata. Grande delusione da parte delle Ong.

Avv. Iacopo Maria Pitorri

Venezuela, è emergenza umanitaria

Il Venezuela vive, attualmente, una situazione estremamente difficile. Riunitosi il Consiglio di Sicurezza ONU, ciò che è emerso è davvero spaventoso, se possibile reso ancora più drammatico dai dati riportati da UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, per la loro protezione internazionale ed assistenza materiale) e da OIM (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fondata nel 1951). Al riguardo, anche l’ultimo report emerso da Human Rights Watch (l’organizzazione non governativa internazionale, che si occupa della difesa dei diritti umani) non è dei più rassicuranti.

Circa sette milioni di persone, in Venezuela, necessitano di assistenza umanitaria. Più specificamente, il 24% della popolazione ha urgente bisogno di cure e protezione. I più vulnerabili sono i disabili e le donne in gravidanza. Il 94% degli abitanti vive in condizioni di povertà. Le importazioni di cibo sono crollate dal 75% al 66% e vi è una disponibilità sempre più limitata di acqua potabile. La capitale venezuelana Caracas (oltre ad almeno altri 19 stati del Venezuela) è rimasta nuovamente anche senza corrente elettrica. Lo Stato venezuelano è stato colpito dall’ennesimo blackout di portata nazionale.

Sono quasi quattro milioni i venezuelani che hanno lasciato il Paese (l’80% dei quali è partito tra il 2015 e l’inizio del 2019). Sono oltre 20 i Paesi dell’America Latina colpiti dal flusso di popolazione. Si stima, inoltre, che saranno ancora cinque milioni i venezuelani che entro la fine dell’anno lasceranno lo Stato della parte settentrionale dell’America Latina, noto, tra l’altro, oltre che per la sua meravigliosa costa caraibica, anche per le Ande.

Ulteriormente, secondo il rapporto di Human Rights Watch, concorrono alla crisi un sistema sanitario al collasso, la mancanza di adeguata copertura vaccinale (che ha portato, solo per citare un esempio, ad oltre duemilatrecento casi di morbillo registrati dal giugno 2017, nonché all’aumento di casi di malaria e di altre malattie), ed una crisi nutrizionale che coinvolge adulti e bambini. Il report evidenzia come un terzo degli operatori del sistema sanitario abbiano abbandonato il Paese.

Secondo l’Onu bisogna fare di più per questo Stato in evidente difficoltà.

Il Vicepresidente degli Stati Uniti ha annunciato che Washington stanzierà altri sessanta milioni di dollari in assistenza umanitaria, comunicando, però, che “gli Stati Uniti continueranno ad esercitare pressione economica e diplomatica per promuovere una transizione pacifica verso la democrazia, ma tutte le opzioni sono ancora sul tavolo”.

Dal canto suo l’ambasciatore venezuelano, rivolgendosi alla stampa, ha contestato tanto l’istanza degli Stati Uniti, quanto quella di Human Rights Watch. In merito all’eventuale riconoscimento di un nuovo governo, e, dunque, di una nuova delegazione venezuelana alle Nazioni Unite, ha chiarito che la Carta prevede l’opzione della sospensione dello status di membro su proposta sì del Consiglio di Sicurezza, ma su delibera dell’Assemblea Generale, dove è convinto che la maggioranza degli Stati sosterrebbe la causa del Venezuela.

In un momento di caos politico ed economico, comunque, stante i numeri a dir poco preoccupanti, non vi è dubbio che la popolazione venezuelana sta pagando il prezzo più alto.

Avv. Iacopo Pitorri

L’inferno e il caos avvolgono la Libia

In tema di migranti, Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, vero e proprio sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dello Spazio Schengen), rende noto che nel primo trimestre 2019 si è registrato il 13% di arrivi in meno rispetto all’anno precedente (addirittura, con un calo drastico degli arrivi dalla rotta del Mediterraneo centrale, crollati del 92%).

Intanto dalla Libia, le squadre di MSF (Medici senza Frontiere), comunicano che ci sono diversi civili intrappolati nei combattimenti che si stanno svolgendo a Tripoli. Tra questi sono inclusi centinaia di migranti e rifugiati, bloccati, nei centri di detenzione. Attualmente sono, ormai, moltissime le persone che abitano nelle aree del conflitto, costrette alla fuga in altre zone della città. I migranti, in questa terribile situazione, non hanno alcuna possibilità di fuga. Sono costretti a condizioni pericolose e degradanti; vivono in condizioni disperate e di sofferenza; la loro salute fisica e mentale è estremamente instabile.

 In questo caos, sono trascinati, malauguratamente, donne e bambini.  Si ritiene che una evacuazione generale abbia carattere di urgenza. Medici Senza Frontiere, perciò, lancia un appello affinché tutti i rifugiati e migranti detenuti in Libia siano evacuati dalle zone a rischio, appena possibile e, in attesa del loro rilascio, chiede che vengano garantiti la loro sicurezza e i loro bisogni essenziali. È la terza volta, negli ultimi sette mesi, che a Tripoli scoppiano combattimenti

La situazione per i minori è divenuta a dir poco drammatica. Basti pensare che circa mezzo milione di bambini, a Tripoli, e decine di migliaia nelle aree occidentali, sono a rischio diretto a causa dell’aumentare dei combattimenti. L’Unicef, al riguardo, chiede a tutte le parti in conflitto di proteggere i più piccoli e di astenersi dal commettere violazioni contro i bambini.

In tutto ciò, vi sono state delle impennate nelle quotazioni del petrolio. Il rialzo del prezzo del greggio ha interessato particolarmente l’Aramco (la compagnia nazionale del petrolio saudita, la più grande al mondo). Mentre l’Eni ha evacuato il personale italiano presente sul posto.

Avv. Iacopo Pitorri

I migranti della Alan Kurdi chiedono aiuto

La motonave tedesca Alan Kurdi, della Ong Sea Eye, con a bordo sessantaquattro migranti (salvati più di una settimana fa al largo di Lampedusa), e diciassette soccorritori facenti parte dell’equipaggio, si trova, attualmente, a circa 30 miglia a sud di Malta, al largo delle acque territoriali dell’isola.

Da quando l’imbarcazione – lunga circa trentotto metri di lunghezza – si è allontanata da Lampedusa (la mattina dello scorso 5 aprile), il Governo maltese non ha ancora ufficialmente preso una decisione riguardo al concedere o meno l’attracco. Il comandante, pertanto si mantiene a distanza, navigando a non più di cinque nodi.

La Ong, proprio stamattina, ha lanciato un appello al premier maltese, con richiesta di aiuto per la Alan Kurdi, posto il peggioramento imminente delle condizioni del tempo.

Intanto, a bordo del cargo, in attesa di ricevere le dovute disposizioni, le condizioni sono pessime: le scorte di cibo e di acqua stanno per esaurirsi e la situazione medica potrebbe deteriorarsi velocemente, una volta che la tempesta prevista arriverà.  Se nessuno risponderà all’appello di aiuto, si teme possano fare un gesto estremo. Le persone salvate riversano condizioni preoccupanti. C’è chi soffre di mal di mare, chi è in uno stato psicologico molto fragile, tale da minare anche la convivenza con le altre persone. La esposizione dei migranti al freddo, alla pioggia e alle onde rischia di compromettere la loro vita. Le condizioni fisiche, nella maggior parte dei casi, sono molto deboli. Alcuni di loro debbono dormire sul ponte della nave, esposti al vento gelido. L’isola di Lampedusa era pronta ad accogliere le donne con i loro figli (di uno e sei anni), nonché una terza donna incinta. Tuttavia, nonostante il Ministero  degli Interni italiano abbia dato alle donne e bambini possibilità di scendere su territorio italiano, ottenendo cure immediate e cibo, loro hanno preferito rifiutare e non dividersi dai propri mariti, continuando la corsa verso Malta. Pertanto, la motonave ha ripreso il largo verso Malta, in virtù di una parentesi meteo piuttosto favorevole.

Chiedono all’Italia di applicare gli stessi diritti umani a rifugiati e migranti, come cittadini europei.

La Commissione europea ha ribadito che i contatti avviati già venerdì scorso, per permettere lo sbarco delle persone, sono ancora in corso.

Intanto la nave, che porta il nome del piccolo curdo-siriano trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, si trova ora in navigazione al largo di Malta, tra il mare grosso, in attesa di istruzioni e che qualcuno la faccia attraccare in un porto sicuro.

Avv. Iacopo Pitorri

Il Senatore torna in mare per i migranti

Recentemente l’ex Ufficiale delle Capitanerie di Porto Gregorio De Falco, diventato famoso in tutto il mondo per il ruolo svolto come comandante della Capitaneria di porto in occasione del naufragio della Costa Concordia (nel 2012)  – e per l’ormai noto “torni a bordo”, intimato al comandante della nave da crociera Francesco Schettino – ha rilasciato alcune, rilevanti dichiarazioni in tema di migranti.

De Falco ha asserito quanto siano “degnissime” le missioni che sta compiendo la nave Mare Jonio, la nave della Ong italiana Mediterranea, così come quelle delle altre Ong. Obiettivi, scopi, propositi nobili che non possono non destare l’attenzione di chiunque di noi.

Alla conferenza di “Mediterranea”, che si è svolta a Roma qualche giorno fa, il Senatore De Falco ha ribadito la sua intenzione di salire a bordo delle navi impegnate nel soccorso ai migranti nel Mediterraneo – circostanza che dovrà essere valutata in maniera approfondita – sostenendo che “si tratta di una missione civile molto ampia, che travalica i confini, una missione umanitaria, dovuta, doverosa”.

Lo scorso 6 aprile c’è stato l’incontro tra il senatore e l’armatore della Nave Mare Jonio e gli altri attivisti di Mediterranea, durante il quale è emersa la ferma volontà di De Falco di aiutare i profughi.

L’ex Ufficiale delle Capitanerie di Porto ha dichiarato: “Molti dei miei colleghi stanno soffrendo, perché la missione del Corpo cui appartengo è prodigarsi. In mare, in acqua, non ci sono migranti, ci sono persone. E queste persone se proprio dobbiamo dargli un’etichetta sono naufraghi”.

La nave Mare Jonio partirà la prossima settimana e la presenza a bordo di De Falco è ritenuta tuttora molto probabile.

L’ex Ufficiale delle Capitanerie di porto, quindi, sarà impegnato nel soccorso dei naufraghi, dei migranti, di coloro che, affrontando pericolosi, terribili viaggi, sognano una vita migliore, nel tentativo di lasciarsi alle spalle dolore e sofferenza.

Ad avviso di De Falco, evitare di assegnare un Pos (Place of safety, vale a dire un porto sicuro) da parte della autorità MRCC (la centrale operativa della Guardia costiera, che coordina le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, quindi di soccorso) non è discrezionale, posto che si deve necessariamente indicare, in virtù di quanto stabilito da Convenzioni internazionali, un approdo sicuro.

Avv. Iacopo Pitorri

Onu, il nuovo patto globale per l’ambiente

Di recente, nel corso dei lavori dell’United Nations Environment Assembly, a Nairobi, sono emersi i risultati dell’ultimo rapporto dell’ONU sullo stato del pianeta: si tratta del Global Environment Outlook – 6 (la principale valutazione ambientale dell’ONU). La sua importanza deriva dal fatto che fa riferimento agli obiettivi principali delle Nazioni Unite, risalenti alla risoluzione dell’Assemblea generale, che ha istituito il Programma ambientale delle Nazioni Unite nel 1972. È tenendo conto dei risultati contenuti nel Global Environment Outlook che i paesi dell’Onu devono valutare sia l’influenza della risposta politica alle sfide ambientali che   le possibili vie per raggiungere gli obiettivi concordati a livello internazionale.

Di recente, nel corso dei lavori dell’United Nations Environment Assembly, a Nairobi, sono emersi i risultati dell’ultimo rapporto dell’ONU sullo stato del pianeta: si tratta del Global Environment Outlook – 6 (la principale valutazione ambientale dell’ONU). La sua importanza deriva dal fatto che fa riferimento agli obiettivi principali delle Nazioni Unite, risalenti alla risoluzione dell’Assemblea generale, che ha istituito il Programma ambientale delle Nazioni Unite nel 1972. È tenendo conto dei risultati contenuti nel Global Environment Outlook che i paesi dell’Onu devono valutare sia l’influenza della risposta politica alle sfide ambientali che   le possibili vie per raggiungere gli obiettivi concordati a livello internazionale.

E’ noto che la salute dell’umanità è direttamente legata allo stato del nostro ambiente. Il rapporto fornisce delle indiscutibili prospettive: se si continuerà sulla via attuale, arriveremo ad un futuro oscuro per l’umanità. Al contrario, cambiando scelte e modo di fare, potremo adottare una via dello sviluppo sostenibile.  I leader politici, però, debbono agire al più presto, per il bene di tutti. Aria, acqua, alimenti: buona parte di ciò che è essenziale per la vita e la salute umana, oggi, appare seriamente compromesso. È questo il risultato al quale sono giunti i duecentocinquanta scienziati di ben settanta Paesi, dopo sei anni di ricerche.

I numeri riportati nel rapporto sono oltremodo spaventosi: un quarto delle morti premature e delle malattie nel mondo sono collegate all’inquinamento provocato dall’uomo. Tant’è vero che se le misure di protezione dell’ambiente non verranno considerevolmente intensificate, nelle città e in intere regioni in Asia, in Medio Oriente e in Africa potrebbero verificarsi milioni di decessi prematuri entro la metà del secolo. Il rapporto prevede che “a causa degli inquinanti presenti nei nostri sistemi di acqua dolce, la resistenza anti-microbica diventerà la prima causa di decesso”, entro pochi anni.

L’inquinamento atmosferico, e i prodotti chimici che hanno contaminato l’acqua potabile e mettono a rischio l’ecosistema, è responsabile del “ 25% circa della mortalità e delle malattie a livello mondiale ” (nove milioni di morti solo nel 2015). Altri 1,4 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie legate alla scarsità o assenza di acqua potabile. Vi è, poi, il grave problema connesso agli agenti chimici, che giungono nei mari e provocano effetti negativi sulla salute a livello “potenzialmente multi-generazionale”. Oltre ciò, vi è la deforestazione e il degrado del suolo, che colpisce aree sempre più vaste della terra, privando 3,2 miliardi di persone della possibilità di vivere (e costringendole a migrare), causando gravi problemi geopolitici.

Lo studio evidenzia che, al contrario di quanto promesso fino ad ora negli ultimi decenni, il divario tra Nord e Sud del pianeta, tra paesi ricchi e paesi poveri, sta aumentando.
Sono anni che si sentono ripetere le medesime esortazioni, gli stessi consigli. Ciò significa che molti dei problemi, quindi, non hanno trovato ancora radicale soluzione.

Per favorire i politici nel prendere delle decisioni strategiche, volte ad una economia sostenibile, il rapporto passa in rassegna le tendenze dell’utilizzo delle risorse naturali e i loro consumi a partire dagli anni ’70 e ricorda che: “nel corso degli ultimi 5 decenni la popolazione è raddoppiata e il prodotto interno lordo mondiale è quadruplicato. Durante lo stesso periodo, l’estrazione annuale di materiali è passata da 27 miliardi di tonnellate a 92 miliardi di tonnellate (nel  2017). Entro il 2060 questa cifra dovrebbe raddoppiare”.

Il report evidenzia che “l’estrazione e il trattamento dei materiali dei combustibili e degli alimenti rappresentano circa la metà delle emissioni totali di gas serra e sono responsabili di più del 90% dello stress idrico e sulla biodiversità”. Solo nel 2010, i cambiamenti nell’utilizzo dei suoli avrebbero comportato una  perdita totale di specie intorno all’1%.

Non vi è dubbio, allo stato dei fatti,  che sfruttiamo le risorse  limitate di questo pianeta come se non ci fosse un domani, innescando allo stesso tempo dei cambiamenti climatici e una perdita di biodiversità. Così continuando, potrebbe non esserci un domani. L’attuale situazione è peggiorata. Le misure adottate sono state finora quasi del tutto inutili: le emissioni di CO2 (anidride carbonica) sono aumentate, l’utilizzo delle risorse idriche del pianeta peggiora giorno dopo giorno.

Anche sul fronte degli sprechi alimentari è stato detto tanto. Da molti anni sappiamo che è necessario “adottare dei regimi alimentari meno ricchi di carne e di ridurre lo spreco alimentare nei Paesi sviluppati e in sviluppo, il che ridurrebbe la necessità di aumentare la produzione alimentare del 50 % per nutrire i 9 – 10 miliardi di abitanti del pianeta previsti entro il 2050. Attualmente, il 33% degli alimenti commestibili prodotti nel mondo vengono sprecati e il 56% di tutti i rifiuti sono prodotti nei Paesi industrializzati”, come riportato nel rapporto GEO-6.

Anche per quanto riguarda la riduzione dei rifiuti, sappiamo da tempo cosa fare. Il rapporto GEO-6 ha invitato i leader mondiali a prendere “misure per limitare la quantità degli 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici riversati negli oceani ogni anno”. Gli stessi ricercatori, tuttavia, ammettono che sarà difficile ottenere risultati concreti dato che “benché il problema sia stato oggetto di un’attenzione crescente nel corso degli ultimi anni, non esiste ancora un accordo internazionale sulla questione dei rifiuti marini”.

La verità è che di “ambiente” si parla da decenni.   Il punto è che fare qualcosa di utile per l’ambiente richiede investimenti, a lungo termine, sicuramente meno costosi dei disastri causati dai cambiamenti ambientali o dei danni sulla salute dei cittadini.

La necessità di agire rapidamente per affrontare le sfide ambientali è stata sottolineata anche dalla pubblicazione di una serie di rapporti durante l’Assemblea ambientale. Tra i più devastanti c’è stato un aggiornamento sul cambiamento dell’Artico, nel quale si spiega che, anche se il mondo dovesse tagliare le emissioni, le temperature invernali nell’Artico aumenterebbero di 3-5 °C entro il 2050 e di 5-9 °C nel 2080, devastando la regione e scatenando l’innalzamento del livello del mare in tutto il mondo.

In tutto ciò, la quarta assemblea ambientale delle Nazioni Unite si è chiusa con l’approvazione del nuovo patto globale per salvare il pianeta, sottoscritto alla fine di cinque giorni di colloqui dai ministri di oltre 170 Stati membri dell’ONU. Un impegno in cui si gettano le basi per un cambiamento radicale verso un futuro più sostenibile, dove l’innovazione sarà sfruttata per affrontare le sfide ambientali. L’uso di materiali plastici usa e getta sarà notevolmente ridotto e lo sviluppo non sarà più a scapito del pianeta.

La preoccupazione per un pianeta sempre più inquinato, rapidamente riscaldato e pericolosamente esaurito, ha portato i ministri a impegnarsi a risolvere le sfide ambientali, attraverso l’avanzamento di soluzioni innovative e l’adozione di modelli di consumo e produzione sostenibili. Nella dichiarazione finale diffusa al termine dei colloqui, i ministri si sono impegnati a promuovere sistemi alimentari sostenibili, puntando sulle pratiche agricole volte ad affrontare la povertà attraverso la gestione sostenibile delle risorse naturali. Hanno altresì promosso l’uso e la condivisione dei dati ambientali, manifestando la intenzione di ridurre significativamente i prodotti in plastica monouso entro il 2030.

Si tratta, ovviamente, di risoluzione non vincolanti. Tra le risoluzioni approvate a Nairobi, c’è stato il riconoscimento che un’economia globale più “circolare”, in cui le merci possano essere riutilizzate e mantenute in circolazione il più a lungo possibile, possa contribuire in modo significativo al consumo e alla produzione sostenibili. Altre hanno stabilito la necessità per gli Stati membri di trasformare le loro economie, attraverso appalti pubblici sostenibili e sollecitando i paesi a sostenere misure per affrontare gli sprechi alimentari, oltre a sviluppare e condividere le migliori pratiche su soluzioni di catena del freddo efficienti dal punto di vista energetico e sicure. Nell’ottica di proteggere gli oceani e gli ecosistemi fragili, inoltre, i ministri hanno adottato una serie di risoluzioni sui rifiuti di plastica marina e sulle microplastiche, compreso l’impegno di intraprendere azioni immediate per l’eliminazione a lungo termine di rifiuti e microplastiche. Hanno altresì individuato le risoluzioni per affrontare il problema dei rifiuti marini, esaminando l’intero ciclo di vita dei prodotti e aumentando l’efficienza delle risorse.

Ne deriva che, se i paesi mantenessero tutto ciò che è stato concordato a Nairobi,  e attuassero le risoluzioni, si potrebbero veramente fare passi avanti verso un nuovo assetto mondiale che non vada più a scapito della natura, ma verso la prosperità sia delle persone che  del pianeta. Così come hanno affermato, invero, gli Stati membri durante i vivaci dibattiti emersi durante l’assemblea, a fianco della società civile, delle imprese, della comunità scientifica e di altre parti interessate è ancora possibile aumentare il nostro benessere, e allo stesso tempo mantenere la crescita economica, utilizzando con efficienza le risorse e ponendo in essere politiche di protezione della biodiversità.

Di recente, nel corso dei lavori dell’United Nations Environment Assembly, a Nairobi, sono emersi i risultati dell’ultimo rapporto dell’ONU sullo stato del pianeta: si tratta del Global Environment Outlook – 6 (la principale valutazione ambientale dell’ONU). La sua importanza deriva dal fatto che fa riferimento agli obiettivi principali delle Nazioni Unite, risalenti alla risoluzione dell’Assemblea generale, che ha istituito il Programma ambientale delle Nazioni Unite nel 1972. È tenendo conto dei risultati contenuti nel Global Environment Outlook che i paesi dell’Onu devono valutare sia l’influenza della risposta politica alle sfide ambientali che   le possibili vie per raggiungere gli obiettivi concordati a livello internazionale.

È noto che la salute dell’umanità è direttamente legata allo stato del nostro ambiente. Il rapporto fornisce delle indiscutibili prospettive: se si continuerà sulla via attuale, arriveremo ad un futuro oscuro per l’umanità. Al contrario, cambiando scelte e modo di fare, potremo adottare una via dello sviluppo sostenibile.  I leader politici, però, debbono agire al più presto, per il bene di tutti. Aria, acqua, alimenti: buona parte di ciò che è essenziale per la vita e la salute umana, oggi, appare seriamente compromesso. È questo il risultato al quale sono giunti i duecentocinquanta scienziati di ben settanta Paesi, dopo sei anni di ricerche.

I numeri riportati nel rapporto sono oltremodo spaventosi: un quarto delle morti premature e delle malattie nel mondo sono collegate all’inquinamento provocato dall’uomo. Tant’è vero che se le misure di protezione dell’ambiente non verranno considerevolmente intensificate, nelle città e in intere regioni in Asia, in Medio Oriente e in Africa potrebbero verificarsi milioni di decessi prematuri entro la metà del secolo. Il rapporto prevede che “a causa degli inquinanti presenti nei nostri sistemi di acqua dolce, la resistenza anti-microbica diventerà la prima causa di decesso”, entro pochi anni.

L’inquinamento atmosferico, e i prodotti chimici che hanno contaminato l’acqua potabile e mettono a rischio l’ecosistema, è responsabile del “25% circa della mortalità e delle malattie a livello mondiale” (nove milioni di morti solo nel 2015). Altri 1,4 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie legate alla scarsità o assenza di acqua potabile. Vi è, poi, il grave problema connesso agli agenti chimici, che giungono nei mari e provocano effetti negativi sulla salute a livello “potenzialmente multi-generazionale”. Oltre ciò, vi è la deforestazione e il degrado del suolo, che colpisce aree sempre più vaste della terra, privando 3,2 miliardi di persone della possibilità di vivere (e costringendole a migrare), causando gravi problemi geopolitici.

Lo studio evidenzia che, al contrario di quanto promesso fino ad ora negli ultimi decenni, il divario tra Nord e Sud del pianeta, tra paesi ricchi e paesi poveri, sta aumentando.
Sono anni che si sentono ripetere le medesime esortazioni, gli stessi consigli. Ciò significa che molti dei problemi, quindi, non hanno trovato ancora radicale soluzione.

Per favorire i politici nel prendere delle decisioni strategiche, volte ad una economia sostenibile, il rapporto passa in rassegna le tendenze dell’utilizzo delle risorse naturali e i loro consumi a partire dagli anni ’70 e ricorda che: “nel corso degli ultimi 5 decenni la popolazione è raddoppiata e il prodotto interno lordo mondiale è quadruplicato. Durante lo stesso periodo, l’estrazione annuale di materiali è passata da 27 miliardi di tonnellate a 92 miliardi di tonnellate (nel 2017). Entro il 2060 questa cifra dovrebbe raddoppiare”.

Il report evidenzia che “l’estrazione e il trattamento dei materiali dei combustibili e degli alimenti rappresentano circa la metà delle emissioni totali di gas serra e sono responsabili di più del 90% dello stress idrico e sulla biodiversità”. Solo nel 2010, i cambiamenti nell’utilizzo dei suoli avrebbero comportato una perdita totale di specie intorno all’1%.

Non vi è dubbio, allo stato dei fatti, che sfruttiamo le risorse limitate di questo pianeta come se non ci fosse un domani, innescando allo stesso tempo dei cambiamenti climatici e una perdita di biodiversità. Così continuando, potrebbe non esserci un domani. L’attuale situazione è peggiorata. Le misure adottate sono state finora quasi del tutto inutili: le emissioni di CO2 (anidride carbonica) sono aumentate, l’utilizzo delle risorse idriche del pianeta peggiora giorno dopo giorno.

Anche sul fronte degli sprechi alimentari è stato detto tanto. Da molti anni sappiamo che è necessario “adottare dei regimi alimentari meno ricchi di carne e di ridurre lo spreco alimentare nei Paesi sviluppati e in sviluppo, il che ridurrebbe la necessità di aumentare la produzione alimentare del 50 % per nutrire i 9 – 10 miliardi di abitanti del pianeta previsti entro il 2050. Attualmente, il 33% degli alimenti commestibili prodotti nel mondo viene sprecato e il 56% di tutti i rifiuti sono prodotti nei Paesi industrializzati”, come riportato nel rapporto GEO-6.

Anche per quanto riguarda la riduzione dei rifiuti, sappiamo da tempo cosa fare. Il rapporto GEO-6 ha invitato i leader mondiali a prendere “misure per limitare la quantità degli 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici riversati negli oceani ogni anno”. Gli stessi ricercatori, tuttavia, ammettono che sarà difficile ottenere risultati concreti dato che “benché il problema sia stato oggetto di un’attenzione crescente nel corso degli ultimi anni, non esiste ancora un accordo internazionale sulla questione dei rifiuti marini”.

La verità è che di “ambiente” si parla da decenni.   Il punto è che fare qualcosa di utile per l’ambiente richiede investimenti, a lungo termine, sicuramente meno costosi dei disastri causati dai cambiamenti ambientali o dei danni sulla salute dei cittadini.

La necessità di agire rapidamente per affrontare le sfide ambientali è stata sottolineata anche dalla pubblicazione di una serie di rapporti durante l’Assemblea ambientale. Tra i più devastanti c’è stato un aggiornamento sul cambiamento dell’Artico, nel quale si spiega che, anche se il mondo dovesse tagliare le emissioni, le temperature invernali nell’Artico aumenterebbero di 3-5 °C entro il 2050 e di 5-9 °C nel 2080, devastando la regione e scatenando l’innalzamento del livello del mare in tutto il mondo.

In tutto ciò, la quarta assemblea ambientale delle Nazioni Unite si è chiusa con l’approvazione del nuovo patto globale per salvare il pianeta, sottoscritto alla fine di cinque giorni di colloqui dai ministri di oltre 170 Stati membri dell’ONU. Un impegno in cui si gettano le basi per un cambiamento radicale verso un futuro più sostenibile, dove l’innovazione sarà sfruttata per affrontare le sfide ambientali. L’uso di materiali plastici usa e getta sarà notevolmente ridotto e lo sviluppo non sarà più a scapito del pianeta.

La preoccupazione per un pianeta sempre più inquinato, rapidamente riscaldato e pericolosamente esaurito, ha portato i ministri a impegnarsi a risolvere le sfide ambientali, attraverso l’avanzamento di soluzioni innovative e l’adozione di modelli di consumo e produzione sostenibili. Nella dichiarazione finale diffusa al termine dei colloqui, i ministri si sono impegnati a promuovere sistemi alimentari sostenibili, puntando sulle pratiche agricole volte ad affrontare la povertà attraverso la gestione sostenibile delle risorse naturali. Hanno altresì promosso l’uso e la condivisione dei dati ambientali, manifestando la intenzione di ridurre significativamente i prodotti in plastica monouso entro il 2030.

Si tratta, ovviamente, di risoluzione non vincolanti. Tra le risoluzioni approvate a Nairobi, c’è stato il riconoscimento che un’economia globale più “circolare”, in cui le merci possano essere riutilizzate e mantenute in circolazione il più a lungo possibile, possa contribuire in modo significativo al consumo e alla produzione sostenibili. Altre hanno stabilito la necessità per gli Stati membri di trasformare le loro economie, attraverso appalti pubblici sostenibili e sollecitando i paesi a sostenere misure per affrontare gli sprechi alimentari, oltre a sviluppare e condividere le migliori pratiche su soluzioni di catena del freddo efficienti dal punto di vista energetico e sicure. Nell’ottica di proteggere gli oceani e gli ecosistemi fragili, inoltre, i ministri hanno adottato una serie di risoluzioni sui rifiuti di plastica marina e sulle microplastiche, compreso l’impegno di intraprendere azioni immediate per l’eliminazione a lungo termine di rifiuti e microplastiche. Hanno altresì individuato le risoluzioni per affrontare il problema dei rifiuti marini, esaminando l’intero ciclo di vita dei prodotti e aumentando l’efficienza delle risorse.

Ne deriva che, se i paesi mantenessero tutto ciò che è stato concordato a Nairobi, e attuassero le risoluzioni, si potrebbero veramente fare passi avanti verso un nuovo assetto mondiale che non vada più a scapito della natura, ma verso la prosperità sia delle persone che del pianeta. Così come hanno affermato, invero, gli Stati membri durante i vivaci dibattiti emersi durante l’assemblea, a fianco della società civile, delle imprese, della comunità scientifica e di altre parti interessate è ancora possibile aumentare il nostro benessere, e allo stesso tempo mantenere la crescita economica, utilizzando con efficienza le risorse e ponendo in essere politiche di protezione della biodiversità.

Avv. Iacopo Maria Pitorri

Migranti, la musica come modello di integrazione

Uomini e culture diverse, immersi nei magici ritmi della musica, nata dalle note di una singolare orchestra di diciotto elementi, capace di passare dalle canzoni del mezzogiorno alla musica africana, dai toni giamaicani, al rap metropolitano, hanno, di recente, fatto notizia. Si tratta di musicisti professionisti e braccianti stranieri, che suonano insieme, coinvolti nel progetto dell’associazione ambientalista Terra (che si batte contro il caporalato), in apertura della quindicesima settimana d’azione dell’UNAR – l’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali.

Un cantante nigeriano, un percussionista indiano, un chitarrista pugliese, un percussionista tunisino, un sassofonista lucano, un trombettista statunitense, un cantastorie francese hanno dato vita a straordinarie canzoni del mezzogiorno, a musica africana o giamaicana. Un laboratorio di integrazione, un modello di riscatto, una denuncia in musica della piaga che affligge tante campagne meridionali. “L’orchestra dei braccianti” ha portato tutta la sua carica di energia negli sfarzosi palazzi della politica, con un concerto trascinante nella sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio, in occasione dei progetti e delle iniziative relative alla quindicesima Settimana d’azione contro il razzismo (svoltasi fino al 24 marzo scorso), dal tema “Diversi perché unici”.

Le discriminazioni non sono ancora superate. Razzismi di ogni genere permangono ancora oggi, denuncia, con la musica, l’Orchestra dei braccianti, che è stata capace di realizzare una profonda fusione tra le differenti culture.Così scorrono la canzone napoletana Cicirinella, riarrangiata dal polistrumentista tunisino Marzouk Mejri (che nel suo paese promuove tra i contadini di Tebourba la coltivazione di antichi cereali biologici). O una ballata d’amore del Punjab, scritta da Poppi Alaudipuria (magazziniere indiano in un’impresa agricola in Puglia, dopo anni di lavoro a ore). Poi Kingston, pezzo jamaicano del cantautore franco-italiano Sandro Joyeux (che dopo anni a studiare musica etnica in Africa, è accolto come una star ogni volta che suona nelle baraccopoli o nei Cara d’Italia). O una ballata pugliese come: “U’ suprastante”, antica storia di caporali, riscoperta e suonata dall’etnomusicologo pugliese Salvatore Villani. E il rap di Adams, bracciante dal Gambia che vive nel ghetto di Borgo Mezzanone. O Il soul di Joshua Ojomon, nigeriano albino. Il coordinatore artistico dell’Orchestra, Alessandro Nosenzo, è un cantautore pescarese, che, incontrando Joyeux, ha avuto l’idea di questo originalissimo progetto.

La particolare orchestra nasce dal bisogno di testimoniare anche il presente, vale a dire ciò che accade tutti i giorni sui nostri territori, attraverso lo sfruttamento selvaggio del caporalato. È inconcepibile, invero, che nel 2019 ci siano ancora persone “schiavizzate” per raccogliere i prodotti che arrivano sulle nostre tavole. Questa orchestra ha restituito dignità a persone cui era stata negata, e riesce a comunicare dove non arrivano discorsi e lezioni. Basti pensare che a Cerignola, quando ha suonato per i ragazzi delle scuole, dopo il concerto gli alunni hanno fatto a gara per farsi i selfie con i braccianti-musicisti.

Avv. Iacopo Pitorri

Migranti, i minori non accompagnati in Italia

Quando, di recente, la Sea Watch, è entrata nel porto di Siracusa, a bordo vi erano tredici minori, di cui otto non accompagnati.

Il Viminale ritiene che è estremamente difficile stabilire se si tratti realmente di minori o peno, posto che, come accade per quasi tutti i migranti, si tratta di persone prive di documenti. Per accertare l’età – qualora ci fossero dubbi – è necessaria una équipe formata da interpreti, pediatri, neuropsichiatri, radiologi, psicologi. I costi da sostenere sono alti, il personale scarseggia. Risultato: permane l’alto rischio di mandare adulti tra i ragazzini. Tanto è vero che, negli ultimi 3 anni, in 45.159, approdati sulle coste italiane e non accompagnati, si sono autodichiarati minorenni, a fronte del numero di minori accertato di 36.878.

Al di là del fatto che in 20.862 hanno compiuto i 18 anni, per gli altri le Autorità hanno segnalato la fuga dai centri di accoglienza di 5.229 ragazzini e ragazzine, che sono tuttora irreperibili. La maggior parte di loro è di nazionalità eritrea, egiziana, o afgana. Verosimilmente la lungaggine e la complessità delle procedure di ricongiungimento familiare possono aver spinto questi migranti ad allontanarsi per ritrovare in autonomia i familiari. Addirittura, dai media si è appreso che alcuni sono deceduti durante il viaggio verso il confine. Altri, spinti dalla necessità di procurarsi velocemente denaro necessario a proseguire il viaggio, presumibilmente sono finiti nel giro dello spaccio e/o  in quello della prostituzione.

Al fine di ovviare a tante problematiche, va specificato che a far data dal 6 maggio 2017 in Italia è in vigore la legge Zampa, una delle migliori normative al mondo in fatto di tutela: il “minore solo”, anche se migrante, è equiparato a quello italiano privo di genitori. Ciò vuol dire che deve essere dato in affido, o accolto in una casa-famiglia, oppure in centri dedicati in grado di garantire la sua crescita e l’inserimento sociale, con l’affiancamento costante di un tutore.

Eppure, non sempre è così.

Ben 10.787 minori non accompagnati risultano censiti al 31 dicembre 2018. Pur dovendo essere tutti tutelati, però, non è dato sapere, ad oggi, dove siano stati collocati 869 di loro. Soltanto 461 sono stati dati in affido, soprattutto a parenti e connazionali. Nonostante sia la soluzione migliore (sia per il benessere del bambino che per i costi contenuti), i numeri restano bassi.

3.032 minori sono nei centri di prima accoglienza, dove vengono ospitati subito dopo lo sbarco. In queste strutture accreditate dai Comuni e Regioni è previsto un tempo massimo di permanenza di trenta giorni, atteso che è elevato il rischio di essere adescati dalla criminalità con la promessa di soldi facili. In realtà i tempi sono più lunghi: si arriva anche fino a nove mesi. I minori dovrebbero essere collocati nei centri presenti in tutte le regioni, ma di fatto ben 1.748 minori sono concentrati in Sicilia, dove la normativa consente la deroga agli standard previsti: dal numero massimo di minori per struttura, a quello minimo di operatori dedicati. Poi un centinaio si trovano nei centri di accoglienza straordinaria (CAS), autorizzati dai prefetti solo per le situazioni di massima emergenza.

Il 27 marzo scorso è scaduto il finanziamento del Ministero dell’Interno a settanta Centri di prima accoglienza. Ne rimarranno aperti sette in Sicilia e solo uno in Molise. I minori che oggi stanno nei Centri di prima accoglienza saranno trasferiti nelle strutture di seconda accoglienza (dove viene insegnato l’italiano, e garantito il percorso di crescita e integrazione).

La seconda accoglienza riguarda gli SPRAR (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Oggi ospitano 3.087 minori, al costo di ottanta/cento euro al giorno per ciascuno (stanziati dal Fondo asilo migrazione e integrazione del Ministero dell’Interno). Lo scorso 24 gennaio il Viminale ha annunciato che incrementerà la disponibilità di posti di 400 unità. Poiché, tuttavia, i minori da trasferire superano i 3.000, probabilmente i ragazzini rimarranno in Sicilia.

Sul totale dei minori non accompagnati, 3.338 stanno nelle case-famiglia allestite su base volontaria dai Comuni, ma sempre più sindaci si rifiutano di accoglierne altri, anche per motivi economici: il rimborso che ricevono è di quarantacinque euro al giorno pro capite, a fronte di spese doppie.

Per legge ciascun minore deve avere un tutore, e ogni tutore può occuparsi di tre minori. I cittadini che hanno dato la disponibilità ad assumere l’incarico a titolo volontario sono 5.501, ma quelli effettivamente nominati dai Tribunali dei minorenni oggi sono decisamente in numero inferiore. 

Ulteriormente, va sottolineato che con il Decreto Sicurezza, i 6.492 minori che diventeranno maggiorenni nel 2019, perderanno la protezione umanitaria.  Prima della sua entrata in vigore, i minorenni che presentavano domanda di asilo, se non fossero sussistiti i presupposti per la protezione internazionale, considerata la particolare condizione di vulnerabilità, sarebbero potuti accedere alla protezione umanitaria. Ora che il decreto l’ha abolita, i minori che hanno fatto richiesta di asilo, e si vedranno notificare il diniego a ridosso della maggiore età, o a 18 anni compiuti, diventeranno irregolari. Per rimpatriarli non ci sono gli strumenti.

Avv. Iacopo Pitorri