L’Avvocato Pitorri spiega della Suprema Corte e dei requisiti necessari per la ammissibilità dei motivi dell’appello

L’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, costantemente aggiornato (sia per quanto concerne le disposizioni legislative, che la giurisprudenza), fa emergere l’importanza di una fattispecie, con cui la Suprema Corte ha voluto, ancora una volta, evidenziare quali sono gli elementi necessari per la ammissibilità dei motivi di appello. Facciamo un passo indietro. Con sentenza del 26 settembre 2013, la Corte d’Appello di Brescia ha dichiarato inammissibile il gravame proposto dall’amministratore unico di una s.r.l. avverso la decisione del Tribunale di Brescia, che ha respinto la opposizione all’ordinanza ingiunzione emessa dalla direzione provinciale del lavoro, con cui erano state accertate violazioni insanabili nei confronti di due lavoratori. La Corte, per sostenere la inammissibilità del gravame, ha rilevato che il testo dell’art. 434 comma 1, c.p.c., così come sostituito dal decreto L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, impone l’indicazione sia delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice, sia delle circostanze rilevanti da cui deriva la violazione delle normative rilevanti ai fini della decisione. Nella fattispecie, invece, l’appellante si era limitato a ribadire quanto aveva già dedotto in primo grado attraverso un’argomentazione difensiva che era stata già esaminata dalla sentenza del Tribunale e rispetto alla quale nessuna censura era mossa nell’atto di appello.

Oltre ciò, la Corte ha ritenuto inammissibile anche la doglianza relativa la mancata applicazione della disciplina più favorevole, introdotta dalla L. n. 183 del 2010, atteso che, in conformità con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio di retroattività della legge più favorevole non è applicabile alle sanzioni amministrative e pecuniarie.

Per tali ragioni, il datore di lavoro si è trovato costretto a ricorrere alla Corte di Cassazione censurando la sentenza d’appello sulla base di due motivi. Con il primo motivo di ricorso, ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 434, comma. 1, c.p.c., l’omessa valutazione di circostanze e documenti decisivi ai fini della decisione, l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e la violazione del diritto di difesa del ricorrente ex art. 24 Cost., osservando che il tenore dell’atto di impugnazione era tale per cui dallo stesso dovesse desumersi che il ricorrente aveva compiutamente e specificatamente indicato le modifiche alla ricostruzione del fatto operata dal giudice di prime cure.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, evidenzia l’Avvocato Pitorri, ha censurato la sentenza d’appello per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 434, comma 1, c.p.c., della L. n. 183 del 2010, e del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, nella parte in cui il giudice di seconde cure aveva ritenuto inammissibile la doglianza della mancata applicazione della disciplina più favorevole, violando il principio della retroattività favorevole in materia di sanzioni amministrative.

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso. Ha, innanzitutto, rilevato che il ricorso è stato notificato alla Direzione Provinciale del Lavoro di Bergamo presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Brescia. Detta notifica è nulla, posto che costante giurisprudenza ha affermato il principio per cui “in caso di notificazione del ricorso per cassazione affetta da nullità perché effettuata presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato anziché presso l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice deve ordinare la rinnovazione della notificazione che – senza che sia necessario il rilascio di una nuova procura – ha l’effetto di sanare tale nullità impedendo la decadenza dall’impugnazione”. (Cfr. in questo senso Cass. civ. sez. II Ord., 17 ottobre 2014, n. 22079; Cass. SS.UU civ. 15 gennaio 2015, n. 608 le quali confermano un orientamento già affermato da Cass. SS.UU civ. 6 maggio 1998, n. 4573; Cass. civ. sez. III 27 aprile 2011, n. 9411; Cass. civ. sez. VI – 1 4 ottobre 2013, n. 22767).

In considerazione del principio cardine relativo alla “ragionevole durata del processo”, però (che la Corte ha richiamato), specifica l’Avvocato Pitorri che la stessa ha evidenziato che si debba escludere di procedere alla rinnovazione della notificazione (o agli altri adempimenti all’art. 375 n. 2 c.p.c.), tutte le volte in cui il ricorso si manifesti, da subito, inammissibile, ovvero infondato. Ciò sia nelle ipotesi in cui si debba procedere alla integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, sia nel caso in cui la notifica del ricorso sia nulla e potrebbe quindi farsi applicazione dell’art. 291 c.p.c. Cfr. Cass. civ. sez. lav. 13 dicembre 2018 n. 32331, Cass. civ. sez. lav. 23 marzo 2018 n. 7305; Cass. civ. sez. II 8 febbraio 2010, n. 2723; Cass. SS.UU. civ. 2010, 22 marzo n. 6826; Cass. civ. sez. III, 17 giugno 2013, n. 15106 (concernente una ipotesi di notificazione nulla) oltre che Cass. SS.UU. civ. 17 ottobre 2014, n. 22079).

Al di là degli aspetti preliminare, gli Ermellini di piazza Cavour hanno esaminato i motivi di ricorso, ritenendo la prima censura inammissibile in quanto le proposizioni difensive erano state già avanzate negli stessi termini in primo grado e, per tale ragione, non erano reiterabili allo stesso modo nel giudizio di gravame. Così come affermato recentemente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. civ. 16 novembre 2017 n. 27199. V. anche Cass. civ. sez. VI-3, 30 maggio 2018 n. 13535, e, precedentemente, Cass. civ. sez. lav., 5 febbraio 2015 n. 2143, Cass. civ. sez. VI-5,14 settembre 2017 n. 21366), invero, gli artt. 342 e 434 c.p.c. (nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012) devono essere interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.
Relativamente alle questioni poste con il secondo motivo, invece, la Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata ah ben argomentato che in materia di sanzioni amministrative pecuniarie non si applica il principio di retroattività della normativa più favorevole  (previsto dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, soltanto per infrazioni valutarie e tributarie).

A sostegno dei suddetti principi, spiega l’Avvocato Pitorri, la Corte richiama la pronuncia della Corte Costituzionale n. 193 del 2016, in virtù della quale “la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può poi ritenersi in sé irragionevole. La qualificazione degli illeciti amministrativi, espressiva della discrezionalità legislativa, si riflette sulla natura contingente e storicamente connotata dei relativi precetti, sicché risulta sistematicamente giustificata la pretesa di potenziare l’effetto preventivo e dissuasivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi. Il limitato riconoscimento della retroattività risponde a scelte discrezionali di politica legislativa, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati e sindacabili solo laddove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio”.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri

L’Avvocato Pitorri spiega il reato continuato

Il reato continuato, spiega l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri (che nella sua attività forense tratta anche la materia penalistica), è quello che uno stesso soggetto commette, con più azioni una pluralità di reati, esecutivi di un medesimo disegno criminoso. A caratterizzare questo reato è l’unicità del disegno criminoso, che giustifica un trattamento sanzionatorio diverso e più favorevole.

La giustificazione del trattamento di favore da parte del legislatore si ha perché le più violazioni di legge, poste in essere dall’agente, fanno capo al medesimo disegno criminoso (che è il tratto qualificante di questo tipo di reato). Secondo i giudici di legittimità, più reati che scaturiscono da un unico progetto, hanno un disvalore inferiore a quello di più reati originati da soggetti diversi.

Con riguardo alla recidiva, la giurisprudenza ha per molto tempo negato l’applicazione della disciplina della continuazione dei reati commessi successivamente al giudicato posto che, in tale ipotesi, trova applicazione la recidiva, ritenuta incompatibile, per l’esigente generali preventive che ne costituiscono il fondamento razionale.

Con la nuova normativa, c’è stato il conferimento verso il giudice di merito del potere discrezionale di non aumentare la pena per la recidiva, di cui é rimasta inalterata l’obbligatoria contestazione con le rispettive conseguenze.

Anche la dottrina, sottolinea l’Avvocato Pitorri, ha sostenuto la incompatibilità tra continuazione e recidiva.

Recente giurisprudenza, invece, ha dimostrato che tra i due istituti vi è una incompatibilità indimostrata; continuazione e recidiva rappresentano due istituti autonomi con struttura e finalità diverse ma, nonostante ciò, conciliabili fra loro.

Più grave sarebbe la riprovevolezza di colui che realizza nel tempo una pluralità di illeciti, tra i quali non corre alcun buon legame di natura psicologica, rispetto a quella di chi pone in essere gli stessi illeciti in esecuzione di un medesimo progetto criminoso. Tutto ciò avviene perché, nel primo caso indicato il soggetto sceglie con una pluralità di deliberazioni distinte di ribellarsi ai valori emanati dall’ordinamento.

Nel secondo caso, invece, l’esecuzione dei diversi reati rappresenta il frutto non di una rinnovata autonoma scelta di porsi contro il diritto, ma dell’originaria meditazione del programma criminoso.

Nonostante vi siano state molte tesi emerse per considerare tale atteggiamento come un indice di maggiore colpevolezza, l’ambito di operatività si è ampliato attraverso la riforma n. 99 del 1974.

Con l’entrata in vigore di tale riforma il trattamento di favore è stato esteso anche nel caso di violazioni di norme incriminatrici eterogenee.

E’ fondamentale distinguere le due ipotesi che potrebbero verificarsi: una volta emessa una sentenza irrevocabile di condanna per un reato, una cosa è che emerga un altro, realizzato in tempi antecedenti alla pronuncia, altra é l’ipotesi in cui un nuovo reato sia commesso dopo la sentenza definitiva di condanna, per reati di un medesimo disegno criminoso realizzati in tempi precedenti.

Con riguardo alla prima ipotesi, la continuazione tra reati già giudicati e quello nuovo non sarebbe mai ammissibile, qualora quest’ultimo risultasse più grave.

Nel secondo caso invece, potrebbe essere riconosciuto il vincolo della continuazione, essendo in tale ipotesi sufficiente procedere ad un ulteriore aumento di pena, rispetto a quello già operato in relazione alla violazione più grave.

Un orientamento successivo, tuttavia, ha chiarito che la continuazione andrebbe riconosciuta anche nel caso in cui il nuovo reato risulti più grave.

A tal riguardo è importante considerare l’art. 671 c.p.p., secondo il quale viene riconosciuta al giudice dell’esecuzione la facoltà di applicare l’art. 81 c.p., senza operare distinzioni di sorta.

L’art. 81, comma 2, c.p. prevede l’applicazione della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata sino al triplo.

Vi sono diversi dubbi interpretativi, sottolinea l’Avv. Pitorri, specie in merito a quella che deve essere considerata la violazione più grave, alla quale apportare l’aumento proporzionale.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri

L’Avvocato Pitorri spiega il giudizio abbreviato e la sua riforma

Il giudizio abbreviato, così come disciplinato dall’art. 438 del codice di procedura penale, è un procedimento che si caratterizza per la mancanza della fase dibattimentale e la definizione del giudizio nella stessa udienza preliminare, allo stato degli atti, fatte salve alcune particolari eccezioni.

Il legislatore lo considera come un giudizio di merito sulla colpevolezza, o sulla innocenza dell’imputato, che ha luogo durante l’udienza preliminare, vale a dire in sede di conversione di un altro rito speciale, ovvero nella fase prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art.452, comma 2, c.p.p.; art. 458 c.p.p.; art.461, comma 3, c.p.p.; art. 555, comma 2, c.p.p.)

Con questo rito “premiale” si rinuncia al dibattimento, snellendo il corso del processo; si abbandona, pertanto, l’acquisizione delle prove nella dialettica tra le parti e degli atti contenuti all’interno del fascicolo del Pubblico Ministero, raccolti nel corso delle indagini preliminari dall’organo requirente, oltre che dal difensore.

 L’abbreviazione del giudizio presuppone che il P.M. abbia già esercitato l’azione penale mediante la formulazione dell’imputazione (art. 405 c.p.p. “il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione …”), richiedendo al giudice la celebrazione dell’udienza preliminare o di altro rito.

La facoltà di rinunciare alla fase dibattimentale spetta esclusivamente all’imputato e non è sindacabile neanche da parte dell’organo giudicante, che ha l’obbligo di accogliere la richiesta di giudizio abbreviato avanzata dallo stesso. Considerata la natura di atto personalissimo, la volontà dell’imputato deve essere espressa personalmente, o a mezzo di procuratore speciale, con sottoscrizione autenticata. Il Pubblico Ministero, ovviamente, non ha tale facoltà.

Secondo quanto enunciato dall’art. 438 c.p.p. (presupposti del giudizio abbreviato): “1) L’imputato può chiedere che il processo sia definito all’udienza preliminare allo stato degli atti, salve le disposizioni di cui al comma 5 del presente articolo e all’articolo 441, comma 5. 2) La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422. 3)La volontà dell’imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata nelle forme previste dall’articolo 583, comma 3. 4) Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato. Quando l’imputato chiede il giudizio abbreviato immediatamente dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, il giudice provvede solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa. In tal caso, l’imputato ha facoltà di revocare la richiesta”. Ed ancora: “L’imputato ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti indicati nell’articolo 442, comma. 1-bis, può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili. In tal caso il pubblico ministero può chiedere l’ammissione di prova contraria. Resta salva l’applicabilità dell’articolo 423. 5-bis) Con la richiesta presentata ai sensi del comma 5 può essere proposta, subordinatamente al suo rigetto, la richiesta di cui al comma 1, oppure quella di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444. 6)In caso di rigetto ai sensi del comma 5, la richiesta può essere riproposta fino al termine previsto dal comma 2.6-bis) La richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare determina la sanatoria delle nullità, sempre che non siano assolute, e la non rilevabilità delle inutilizzabilità, salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio. Essa preclude altresì ogni questione sulla competenza per territorio del giudice”.

Il rito abbreviato è applicabile per qualsiasi tipo di reato. Il vantaggio nell’utilizzo di questo rito speciale, per l’imputato, sta in considerevoli sconti di pena, determinati ai sensi dell’art. 442, comma 2, c.p.p.

I presupposti per applicare il  giudizio abbreviato (scelti liberamente dall’imputato), si palesano  come segue: il primo si basa su di una richiesta semplice dell’imputato, tramite la quale egli si limita a richiedere che il processo venga definito allo stato degli atti. Il secondo, invece, prevede una richiesta complessa, atteso che l’imputato può subordinare la trasformazione del rito alla condizione che vengano assunti taluni mezzi di prova, al fine di colmare un supposto deficit conoscitivo della questione di merito, determinata da lacune dell’attività investigativa.

La richiesta può essere proposta entro determinati limiti temporali, ovvero sino a che non siano formulate le conclusioni all’esito dell’udienza preliminare, il che permette all’imputato di valutare l’opzione di avvalersi del rito abbreviato in un momento seguente all’inquisitoria del pubblico ministero. La richiesta può essere presentata sin dal deposito delle indagini difensive. In caso il giudice abbia concesso al P.M. un termine di sessanta giorni per le indagini suppletive, l’ordinanza con cui si dispone il giudizio abbreviato non può essere emessa prima del decorso di tale termine.

La disciplina del giudizio abbreviato è stata oggetto di una serie di modifiche non uniformi e di difficile interpretazione. La più recente concerne la legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha profondamente inciso sulla disciplina del giudizio abbreviato. Fino ad oggi con il rito abbreviato, in caso di condanna, era possibile ottenere uno sconto di pena pari ad un terzo. A seguito delle novità normative entrate da poco in vigore sono stati fissati alcuni rigidi paletti, con i quali viene escluso il rito speciale per coloro che siano accusati di reati come la devastazione, il saccheggio, la strage, l’omicidio aggravato e le ipotesi aggravate di sequestro di persona.

Il provvedimento, definitivamente approvato dal Senato il 2 aprile 2019, modifica degli articoli 429, 438, 441-bis e 442 del codice di procedura penale, non ammette il giudizio abbreviato per delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo. Si tratta, ad esempio, dei delitti di devastazione, saccheggio e strage, strage, omicidio aggravato, nonché delle ipotesi aggravate di sequestro di persona. Prevede che la richiesta di rito abbreviato per uno di tali delitti debba essere dichiarata inammissibile dal giudice dell’udienza preliminare. Consente all’imputato di rinnovare la richiesta fino a che non siano formulate le conclusioni nel corso dell’udienza preliminare. Prevede che se, alla fine del dibattimento, il giudice riconosce che per il fatto accertato era possibile il rito abbreviato, egli debba comunque applicare al condannato la riduzione di pena prevista quando si procede con il rito speciale (diminuzione di un terzo della pena).

L’imputato può rinnovare la richiesta fino a che non siano formulate le conclusioni nel corso dell’udienza preliminare. In questo modo quindi, se alla fine del dibattimento il giudice riconosce che per il fatto accertato sarebbe stato possibile il rito abbreviato, dovrà comunque applicare all’imputato una riduzione di pena prevista quando si procede con il rito speciale.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri

L’Avvocato Pitorri spiega il disegno di legge Pillon nel diritto di famiglia

Ci rammenta l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri che circa una anno, fa, precisamente nell’agosto del 2018, è stato assegnato alla commissione giustizia del Senato il disegno di legge 735, altrimenti noto come “disegno di legge Pillon” (dal nome del senatore della lega Simone Pillon). E’ costituito da ventiquattro articoli, che introducono una serie di  modifiche in materia di diritto di famiglia, separazioni e affido condiviso dei minori (che,  una volta entrate in vigore, si applicheranno anche ai procedimenti pendenti).

Considerata la particolare materia, al fine di evitare inutili, sterili lungaggini, per snellire determinate procedure, l’Avvocato Pitorri fa presente che il disegno di legge, introduce alcune procedure stragiudiziali di risoluzione alternativa delle controversie. Prevede, invero, la possibilità di introdurre la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni “a pena di improcedibilità”, indicando quale espresso obiettivo del legislatore quello di “salvaguardare per quanto possibile l’unità della famiglia”. A tal fine viene istituito l’albo dei mediatori familiari, con la possibilità di accesso anche agli avvocati iscritti al relativo ordine professionale da almeno cinque anni ( con una pregressa esperienza di almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di famiglia e minorile per ogni anno). La mediazione familiare avrà durata massima di sei mesi e l’ipotetico conseguimento di un accordo dovrà soggiacere alla omologazione del tribunale entro e non oltre quindici giorni dal raggiungimento dello stesso, a pena di nullità.Specifica l’Avvocato Pitorri che la partecipazione al procedimento sopra indicato è volontaria, tuttavia il ddl prevede che lo stesso procedimento rivesta carattere di obbligatorietà per le coppie con figli minorenni.

L’articolo 11 del ddl prevede che “indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori il minore ha diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e la madre, a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali e a trascorrere con ciascuno dei genitori tempi adeguati, paritetici ed equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale. Si garantisce, comunque, la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti con ciascun genitore, a meno che non ci sia un motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del minore in casi tassativamente individuati. Il giudice, inoltre, nell’affidare in via condivisa i figli minori, dovrà stabilire il doppio domicilio dello stesso ai fini delle comunicazioni scolastiche, amministrative e relative alla salute.”

Il mantenimento deve essere ripartito tra i due genitori. Diventa, cioè, diretto,  dovendo ciascun genitore contribuire per il tempo in cui il figlio gli è affidato. Il piano genitoriale, pertanto, dovrà contenere la ripartizione per ciascun capitolo di spese, sia delle spese ordinarie che di quelle straordinarie.

Il  disegno di legge in materia di famiglia, ha come obiettivo principale quello di contrastare il fenomeno della cosiddetta “alienazione genitoriale”, vale a dire quella condotta attivata da uno dei due genitori posta in essere per allontanare il figlio dall’altro genitore. Questo perché , chiarisce l’Avvocato Pitorri  quando vi è una crisi familiare, generalmente il diritto del minore ad avere entrambi i genitori finisce frequentemente violato, con la concreta esclusione di uno dei genitori (la maggior parte delle volte il padre) dalla vita dei figli, e con il contestuale eccessivo rafforzamento del ruolo dell’altro genitore.

Al riguardo prevedono espressamente gli articoli 17 e 18 del ddl che “qualora il minore manifestasse rifiuto, alienazione o estraneazione verso uno dei genitori, pur in assenza di evidenti condotte di uno degli stessi a  giustificazione di tale comportamento, il giudice incaricato potrà prendere dei provvedimenti di urgenza: limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore o il collocamento provvisorio del minore presso una apposita struttura specializzata”.

Qualora si presentino ipotesi di alienazione genitoriale il giudice, ai sensi dell’art. 9 del presente ddl,  potrà punire con il pagamento di una somma a titolo di risarcimento danni le “manipolazioni psichiche” o gli “atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento”. Tutto ciò, sottolinea l’Avvocato Pitorri, nell’esclusivo interesse del minore.

Prima del 2006 era compito del tribunale stabilire a quale genitore i figli dovessero essere affidati in via esclusiva. Dal 2006, con la legge sopra indicata, è stato introdotto il principio dell’affido condiviso, salvo i casi in cui questo potesse risultare dannoso per i minori. Tuttavia le percentuali di affidi paritetici risultano a dir poco allarmanti. Tant’è vero, come sostenuto dall’ideatore del ddl, ci si è ritrovati spesso di fronte ad un affido che nei fatti risulta ancora esclusivo, pur dovendo essere invece condiviso.

Con riferimento al concetto di mantenimento diretto, invece, preme osservare come lo stesso sia già presente nel nostro ordinamento e, dalla lettera della legge, si evince come residuale l’ipotesi in cui uno dei genitori corrisponda all’ex partner le somme di cui il minore ha bisogno.

Dispone, infatti, l’art. 337 ter c.c. Che “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori, la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.

Il disegno di legge Pillon si inserisce in un contesto normativo che riguarda le questioni relative all’affidamento dei figli minori nei casi di separazione dei genitori,  già profondamente riformato dalla legge 8 febbraio 2006 n. 54.

Non si esclude, comunque, che il disegno di legge in questione, rivoluzionando il sistema, in ambito di famiglia comporti anche  probabilmente delle complicazioni in merito alle procedure di separazione e divorzio, rendendo di fatto separazione e divorzio accessibili soprattutto a soggetti economicamente abbienti, dovendo risultare necessario, come detto, investire dell’incombenza un mediatore, redigere un dettagliato piano familiare sulle amicizie e frequentazioni dei figli etc., con i relativi costi chiaramente ipotizzabili. Oltre ciò, il piano familiare o genitoriale sopra indicato, oltre a comportare un inutile esborso economico e, per l’effetto, disincentivare la separazione dei coniugi, ridurrebbe la libertà di scelta del minore.

                                                                               Avvocato Iacopo Maria Pitorri

L’Avvocato Pitorri spiega i principi di correttezza e buona fede nel rapporto di lavoro

L’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, si trova sovente, nell’espletamento della professione forense, a dover prendere in considerazione, nelle varie fattispecie sottoposte alla sua attenzione, e a dover spiegare ai clienti che, magari, hanno delle problematiche inerente a un contratto, un negozio giuridico in genere, ovvero un rapporto professionale con un altro individuo, i principi di “correttezza” e “buona fede”. Hanno una importanza fondamentale, oltre che dal punto di vista umano, anche nel nostro ordinamento giuridico. In virtù di essi, ogni contraente è tenuto ad una determinata condotta, nonché alla cooperazione per realizzare l’interesse di controparte. Sono certamente il filtro necessario per impedire che l’esercizio della discrezionalità di ciascuna delle parti del rapporto possa provocare discriminazione, vessazione o, comunque, un mero arbitrio in danno di controparte. Il diritto datoriale di libertà nella iniziativa economica è costituzionalmente riconosciuto all’art. 41 della Carta Costituzionale. Presenta, tuttavia dei limiti che sfociano negli obblighi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 del codice civile). Ciò non solo per quanto concerne la stipulazione, ma anche per la interpretazione e l’esecuzione del contratto (artt. 1366,1175,1375 del codice civile). Posto che, argomentando su questi due aspetti così importanti per il diritto, si potrebbe facilmente incorrere in una sterile astrattezza, citando un esempio, l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri richiama una pronuncia della Corte di Cassazione su questi due principi.

In giurisprudenza si è andata sempre più propagando la condotta, da parte dei lavoratori cassieri, addetti e/o commessi di vendita nel commercio al dettaglio che hanno ad oggetto episodi in cui la carta fedeltà, propria o di soggetti terzi, viene impropriamente utilizzata dal dipendente al fine di trarre un vantaggio diretto e/o indiretto. Molto spesso le carte fedeltà consentono di accumulare punti che possono, a loro volta, essere tramutati in buoni sconto da utilizzare in diversi punti vendita. Si tratta di condotte che, pur cagionando in molti casi un danno economico esiguo, incrinano de facto il rapporto fiduciario e vengono sanzionate con un licenziamento disciplinare da parte del datore di lavoro. La Cassazione, sezione lavoro, con la recente sentenza 11181/2019, ha ritenuto legittima la decisione presa dalla Corte d’Appello in merito al licenziamento della cassiera di un negozio, provvedimento ritenuto illegittimo, invece, dal giudice di secondo grado. Ha osservato la Suprema Corte che la Corte d’Appello ha ben valutato il venir meno dell’elemento fiduciario nel rapporto con al datore di lavoro “indipendentemente da una valutazione economica dell’entità del danno causato, certamente non rilevante, valorizzando invece la gravità della condotta, ricollegata alla truffa”. La pronuncia della Cassazione si fonda su un indirizzo maggioritario, dal quale si evince importanza del vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato in collegamento diretto con i doveri di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375 del codice civile. Buona fede e correttezza integrano le clausole generali, che hanno lo scopo di dare una determinata proporzionalità al sistema del diritto del lavoro. L’inosservanza di questi due fondamentali principi, fa scattare le sanzioni disciplinari. Rifacendosi alla sentenza suddetta, emerge che comportamenti come l’uso improprio della carta fedeltà, in astratto, da un punto di vista meramente positivistico, possa configurare una condotta legittimante un licenziamento. Così, però, in concreto non é. Il dovere di solidarietà sociale, di cui all’articolo 2 della nostra Carta Fondamentale, ha la funzione di mitigare le norme. Il requisito della buona fede, quando entra in gioco, genera equilibrio in un rapporto contrattuale, nel quale una parte avrebbe più forza rispetto all’altra. Nel quale tale clausola è, come ribadito, un limite al potere di una parte, che altrimenti sarebbe libera di agire a proprio totale arbitrio. Questa è dunque una prospettiva di sistema. Questi sono principi cardine del diritto del lavoro. D’altro canto, vige, in ulteriore ipotesi, in diritto, un principio di conservazione dei rapporti. E dunque, sotto tale prospettiva, vanno valutate, in un’ottica di sistema, non solo pronunce come quella commentata dall’Avvocato Pitorri ma, soprattutto le clausole di buona fede e correttezza, nel diritto e nel rapporto di lavoro.

L’Avvocato Pitorri parla della necessità di una riforma della giustizia tributaria

L’Avvocato Iacopo Maria Pitorri fa presente di una esigenza, in ambito di legislazione, diventata ormai impellente: l’approvazione della riforma strutturale della giustizia tributaria. Da questa scaturirebbe, conseguentemente, l’azzeramento di tutto il contenzioso tributario oggi pendente di oltre cento miliardi di euro, che coinvolge circa ventuno milioni di contribuenti.

Secondo le ultime statistiche del Ministero dell’Economia e delle Finanze sul contenzioso, aggiornate al primo trimestre 2018, sottolinea l’Avvocato Pitorri, ci sono 461.741 cause pendenti tra le Commissioni tributarie provinciali, regionali e la Cassazione, cui corrisponde un controvalore stimabile in 75,4 miliardi.

La disciplina attuale del processo tributario continua a suscitare numerosi dubbi di legittimità costituzionale, specie in riferimento al principio di indipendenza ed imparzialità del giudice. Sono molti, infatti, gli aspetti della normativa che ad oggi non consentono ancora di riconoscere ai giudici tributari quella perfetta autonomia dai pubblici poteri, che è garanzia di un giudizio libero da pressioni e da condizionamenti esterni, che sia espressione solo della corretta applicazione della legge. L’inquadramento dei giudici e del personale delle Commissioni Tributarie nell’ambito del Ministero dell’Economia e delle Finanze (parte del processo), i meccanismi di reclutamento dei giudici (nominati tramite un concorso per titoli e non per esami), lo svolgimento spesso non a tempo pieno dell’attività giurisdizionale, sono tutti elementi che limitano (solo in apparenza secondo il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria) l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità dei giudici.
Un complesso processo come quello tributario è affidato, oggi, a giudici che, purtroppo, si scontrano sovente con questioni che divengono sempre più complicate anche in virtù di una legislazione fiscale, sempre più frastagliata ed alle prese con cifre rilevanti e materie complesse, oggetto di continue evoluzioni giurisprudenziali e aggiornamenti normativi. Ne deriva che una riforma del processo tributario appare, sicuramente, indispensabile per poter affrontare le delicate e difficili questioni tributarie, che in caso di errori, anche involontari, possono portare al fallimento delle aziende e alla rovina dei contribuenti.

Occorre, più che mai, garantire tempestività, trasparenza ed efficienza nel rendere giustizia su temi che incidono così in profondità sui diritti dei cittadini e sui rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione. L’attuale strutturazione della giustizia tributaria non appare più adeguata. È necessaria e urgente una totale e radicale riforma della giustizia tributaria. Questa dovrà caratterizzarsi con giudici professionali, specializzati, a tempo pieno, ben retribuiti e, soprattutto, terzi ed imparziali nel rispetto dell’art. 111, comma 2, della Costituzione.


Come più volte chiarito dalla Corte Costituzionale (cfr. Ordinanza n.227/2016; sentenza n. 154/1984; sentenza n. 212/1986; ordinanza n. 144/1998) e dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (cfr. sentenze nn. 13902/2007 e 8053/2014) è tramite il legislatore ordinario che si può sopprimere e ristrutturare il sistema delle Commissioni Tributarie, creando una sorta di quarta magistratura, in aggiunta a quella ordinaria, amministrativa e contabile.

Soltanto una magistratura tributaria autonoma, indipendente e professionale può, infatti, garantire un sistema tributario equo ed efficiente.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri

Le modifiche al “Decreto Sicurezza bis”

L’ormai noto “Decreto Sicurezza bis”, dovendo superare incertezze e dubbi di incostituzionalità, è stato presentato qualche giorno fa in Consiglio dei ministri. L’approvazione, tuttavia, é stata rinviata a causa delle perplessità sollevate a seguito dei rilievi del Quirinale sul testo.

Più specificamente, spiega l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, nella precedente versione si prevedevano sanzioni (da 10mila a 50mila euro) per le navi che soccorrevano migranti, violando le norme e le istruzioni “delle autorità responsabili dell’area in cui ha luogo l’operazione di soccorso”. In virtù delle correzioni tecniche apportate, è rimasta la sanzione amministrativa (da 10 mila a 50 mila euro) per le navi che violano “il divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane”» (con sequestro cautelare immediato e successiva confisca).

È stato, però, eliminato il riferimento esplicito alle “azioni di soccorso di mezzi adibiti alla navigazione ed utilizzati per il trasporto di migranti”. Si tratta, chiarisce l’Avvocato Pitorri, di una sorta di limatura apportata dai tecnici del Viminale alle “disposizioni urgenti in materia di contrasto all’immigrazione illegale e di ordine e sicurezza pubblica” (il cosiddetto, appunto, “Decreto Sicurezza bis”). A cambiare, in buona sostanza, sono i primi due articoli del decreto.

Il nuovo articolo 1 (“misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di immigrazione”) stabilisce che “il ministro dell’Interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione di Montego Bay”.

Rammenta l’Avvocato Pitorri che il  “Decreto Sicurezza bis”, recentemente, è  stato oggetto di polemiche anche al di fuori del nostro Paese, posto che, secondo quanto stabilito dagli esperti delle Nazioni Unite, “è potenzialmente in grado di compromettere i diritti umani dei migranti, inclusi richiedenti asilo e le vittime o potenziali vittime di detenzione arbitraria, tortura, traffico di esseri umani e altre gravi violazioni dei diritti umani”. Per l’ONU, quindi, appare, indispensabile fermare questo decreto

Avvocato Iacopo Maria Pitorri.

I lineamenti giuridici della legittima difesa

La “legittima difesa” è, generalmente, la risposta ad una esigenza naturale, ad un istinto che induce l’individuo aggredito a difendersi, respingendo l’aggressione ad un proprio bene tutelato.

Chiarisce l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri, esperto di diritto penale, che il relativo istituto si colloca fra le cause di giustificazione previste dal nostro ordinamento  (che escludono, già dal punto di vista obiettivo, la configurabilità di un fatto di reato). E’ disciplinato dall’art. 52 del codice penale il quale dispone che: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.

I requisiti principali della “legittima difesa sono:  la  “attualità del pericolo” e la “ingiustizia dell’offesa”.

Con riferimento al pericolo, non si deve trattare né di un pericolo passato (posto che, in tal caso, non si avrebbe più alcuna necessità di prevenire un’offesa), tantomeno di un pericolo futuro (atteso che, qualora così fosse, sarebbe possibile ricorrere all’intervento delle Autorità). E’ necessario, quindi, un pericolo attuale, presente,  incombente al momento del fatto, tale che la reazione nei confronti dell’aggressore rappresenti l’unico mezzo per salvaguardare il bene posto in pericolo.

Per quanto concerne il  concetto di offesa ingiusta, secondo l’interpretazione tradizionale, è considerata ingiusta la offesa arrecata contra jus, cioè antigiuridica, posta in essere in violazione delle norme che tutelano il bene minacciato. Affinché, l’offesa, realizzata attraverso l’azione difensiva, possa ritenersi giustificata sono necessari  anche determinati requisiti con riferimento alla reazione. Deve, infatti,  apparire necessaria per salvaguardare il bene posto in pericolo, ossia inevitabile, quando cioè non può essere sostituita da un’altra reazione meno dannosa ed ugualmente idonea ad assicurare la tutela dell’aggredito.

Il secondo requisito,  è quello della proporzione tra difesa ed offesa, da intendersi riferita ai beni giuridici in gioco, non ai mezzi utilizzati: si riscontra nel momento in cui la offesa arrecata è inferiore, uguale o tollerabilmente superiore a quella posta in essere dall’aggressore.

La legittima difesa, evidenzia l’Avvocato Pitorri,  rappresenta senz’altro il punto di arrivo di un percorso evolutivo lungo e complesso, che ne ha radicalmente mutato caratteristiche e limiti, pur mantenendo immutato nel tempo il principio base dell’istituto, ossia il diritto di chiunque di difendere la vita propria e altrui da ingiuste aggressioni.

A fronte dei numerosi delitti efferati, commessi soprattutto all’interno di luoghi di privata dimora e alle conseguenti reazioni delle parti offese, è costantemente acceso un vivo dibattito,  nell’opinione pubblica, relativamente alle funzioni della legittima difesa ed alle sue problematiche. Questo ha avuto come esito diverse proposte di modifica dell’istituto, finalizzate tutte a consentire un’estensione dell’ambito di applicabilità della scriminante, tale da permettere maggiore protezione giuridica ai privati che si trovano ad essere aggrediti nei propri interessi personali e patrimoniali.

La disciplina del codice sulla legittima difesa è stata modificata con la L. 13 febbraio 2006 n. 59, la quale ha introdotto la c.d. legittima difesa “domiciliare”, aggiungendo  all’art. 52 c.p. due nuovi commi destinati a regolamentare l’esercizio del diritto di autotutela in un privato domicilio. Più specificamente, il secondo comma, prevedeva che :“Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Il terzo comma, invece, stabiliva che :“La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.

Detta novella, è stata introdotta nel 2006 a seguito di alcuni fatti di cronaca aventi ad oggetto furti e/o rapine in esercizi commerciali ed abitazioni, e che hanno visto le persone offese dei riferiti reati reagire “per legittima difesa,  con l’uso di armi da fuoco, provocando la morte degli autori.

Particolare rilevanza è stata data alla modifica del requisito della proporzione , nel senso che quando la reazione difensiva è diretta nei confronti di un intruso, in un luogo di privata dimora, il giudice è esonerato dal verificare in concreto la proporzionalità tra offesa e difesa, dovendo questo essere considerato, in tali casi, legislativamente presunto juris et de jure. Rileva l’Avvocato Pitorri, la riforma, sin dall’inizio, ha suscitato reazioni contrastanti, posto che se da un lato ha contribuito ad ampliare l’ambito di applicabilità della disciplina (tutelando, in misura maggiore, le aggressioni all’interno dei luoghi di privata dimora), dall’altro lato si è verificato il rischio che producesse al contrario, un incentivo alla aggressività dei delinquenti, offrendo maggiori spazi di aggressività difensiva alle potenziali vittime.

Stante, purtroppo, il moltiplicarsi di episodi di violenza, nell’odierna società, ci si è visti costretti, pertanto, ad affrontare nuovamente la tematica della  legittima difesa. “La difesa è sempre legittima”: su detto assunto verte il testo di legge approvato in via definitiva, recentemente, dal Senato lo scorso 28 marzo 2019.

La nuova riforma in materia di legittima difesa prevede un inasprimento del trattamento sanzionatorio per alcuni tra i più comuni reati, commessi in occasione di aggressioni nel domicilio (tipo furto,rapina eviolazione di domicilio). Se ne deduce, conferma l’Avvocato Pitorri, che l’idea principale del Legislatore  è quella di  rendere il più possibile immune da responsabilità e conseguenze sfavorevoli, colui che si difende da un’aggressione nel domicilio, inteso quale abitazione, o altro luogo di privata dimora, compresi quelli in cui vengono svolte attività commerciali, professionali o imprenditoriali.

Chiarito, quindi,  che la riforma riguarda solo la legittima difesa domiciliare, il Senato ha provveduto, nello specifico,  ad approvare alcuni seguenti articoli. Innanzitutto l’articolo 1 del provvedimento, atto a modificare il comma 2 dell’art. 52 c.p.,  disponendo che, nel caso in cui una persona presente legittimamente nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, utilizzi un’arma (che deve essere, ovviamente, detenuta legittimamente0), per difendere la propria o l’altrui incolumità, nonché i beni propri o altrui, dal “pericolo di un’aggressione”, la sussistenza della proporzionalità tra offesa e difesa è sempre riconosciuta. La modifica poggia sul ritenere “sempre” sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa.  L’ articolo 2 rappresenta il punto focale della riforma, in quanto introduce  il concetto di “grave turbamento” tra le cause di non punibilità,  apportando delle modifiche all’articolo 55 c.p., che: “Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. L’articolo 3  del provvedimento, da ultimo, nel modificare l’articolo 165 c.p., prevede che nei casi di condanna per furto in appartamento, e furto con strappo (art. 624-bis c.p.), la sospensione condizionale della pena sia subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa.

Oltre alle suddette modifiche, il provvedimento è intervenuto anche specificamente per  alcune tipologie di reato. In particolare, nella fattispecie di cui all’art 614 c.p. (violazione di domicilio), la reclusione da sei mesi a tre anni viene sostituita con la reclusione da uno a quattro anni e, nell’ipotesi aggravata di cui al quarto comma,  la reclusione da uno a cinque anni viene sostituita con la reclusione da due a sei anni.

Per quanto concerne invece, l’art. 624-bis c.p. (furto in abitazione),  la pena detentiva passa “da tre a sei anni” a “da quattro a sette anni” e, nei casi più gravi previsti dal terzo comma, é applicata la pena “da cinque a dieci anni e della multa da euro 1.000 a euro 2.500”.

Con riferimento, poi, al delitto di cui all’art. 628 c.p. (rapina), viene innalzato da quattro a cinque anni il minimo edittale della reclusione per la rapina semplice, resta, però, fermo il massimo fissato a 10 anni.

Per le ipotesi aggravate e pluriaggravate, di cui rispettivamente al terzo comma e al quarto comma dell’articolo 628 c.p., il disegno di legge prevede un analogo inasprimento sanzionatorio. In particolare per la rapina aggravata la pena della reclusione è elevata nel minimo da cinque a sei anni (il massimo resta fissato a 20 anni) e la pena pecuniaria è rideterminata da 2.000,00 a 4.000,00 euro . Per le ipotesi pluriaggravate la pena della reclusione è elevata nel minimo da sei a sette anni (il massimo resta fissato a 20 anni) e la pena pecuniaria è rideterminata da 2.500,00 a 4.000,00 euro .Le modifiche intervenute, tuttavia, non hanno il potere di scongiurare completamente il pericolo: nel senso che, probabilmente, il malintenzionato che vuole introdursi furtivamente nell’appartamento altrui continuerà a farlo, nonostante l’inasprimento del trattamento sanzionatorio. Introducendo l’elemento psicologico del grave turbamento,  quale scriminante determinante nell’eccesso colposo, in più, viene data ampia discrezionalità alla Magistratura, che deve valutare/interpretare se colui che si è difeso con la propria arma, legittimamente detenuta, si trovava in uno stato di agitazione tale da giustificare la sua condotta. Quella del “grave turbamento” è senz’altro una prova estremamente difficile da produrre, perché soggetta a presunzioni oggettive.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri

Gli strumenti a tutela delle minoranze linguistiche

La tutela delle minoranze linguistiche va affrontata, oltre che dal punto di vista del diritto, considerando anche la storia, la geografia, la letteratura e la sociologia, pur in considerazione della riscoperta delle identità regionali e locali in un sistema socio-culturale-politico sempre più “globalizzato”. Se è compito del legislatore, quindi, emanare le norme in materia di lingua, compete invece  all’antropologo, al sociologo, allo storico, stabilire quale sia lingua e quale dialetto.

Evidenzia l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri che le numerose sentenze della Corte costituzionale, che si sono susseguite in materia di minoranze linguistiche,  confermano la tesi in forza della quale non si possono equiparare i dialetti italiani (il friulano, il piemontese, il lombardo, ecc.) alle minoranze linguistiche tutelate dalla Costituzione e dalla legge n. 482/99, che costituiscono un patrimonio culturale specifico. L’ordinamento giuridico, tuttavia, nel riflettere la pluralità degli interessi presenti nella società (tra i quali, appunto, quelli minoritari), non esclude di riconoscerne, in ampia misura la legittimità, e mira a regolare altresì i conflitti che ne conseguono. Ne consegue che la disciplina giuridica delle minoranze esercita significative ripercussioni su alcuni problemi derivanti dalla teoria generale del diritto. A tale proposito giova precisare che l’art. 6 sulle etnie linguistiche minoritarie, è uno dei più brevi dell’intera Costituzione, tant’è vero che dispone semplicemente che “la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Oltre ciò, chiarisce l’Avvocato Pitorri, ha trovato la sua attuazione oltre cinquant’anni dopo l’entrata in vigore della nostra Carta Costituzionale, con la legge 15 dicembre 1999, n. 482. Specifica l’Avvocato Pitorri che la norma si riferisce alla Repubblica, in quanto l’obbligo di tutelare le minoranze linguistiche abbraccia anche gli enti territoriali e rappresenta una diretta applicazione dell’art. 3, vietando ogni forma di discriminazione basata sulla diversità della lingua, e dell’art. 2, atteso che, in attuazione dei principi di pluralismo e di tolleranza, prevede una tutela positiva delle minoranze etniche, atta a salvaguardare la loro identità culturale, nonché a consentire una effettiva partecipazione anche di questi gruppi alla vita politica e sociale del Paese.

L’Avvocato Pitorri  spiega che, analizzando il concetto di tutela giuridica dei gruppi sociali minoritari, non ci si può esimere dal considerare due principi propri di un ordinamento giuridico democratico: il principio di eguaglianza e il principio di pluralismo. Più segnatamente, la connessione tra la disciplina giuridica dei problemi minoritari e il principio di eguaglianza è di tale importanza che i risultati dell’indagine giuridica relativi al tema trattato si ripercuotono, in qualche misura, sull’elaborazione teorica del suddetto principio, la cui esatta portata non può essere pienamente intesa, né tracciata senza tenere conto del modo in cui esso funziona in relazione alle situazioni minoritarie. Fa presente l’Avvocato  Pitorri, che la cultura dei gruppi minoritari, essendo diversa da quella della maggioranza, non può svilupparsi se non è protetta da provvedimenti legislativi particolari e derogatori rispetto a quelli adottati in via generale con riferimento alla cultura maggioritaria. Le misure che realizzano la tutela delle minoranze linguistiche, pertanto, consistono nel porre accanto alle regole che facilitano l’uso delle lingue minoritarie ulteriori regole che valgano ad evitare che tale uso si risolva, per chi lo pratica, in un qualsiasi pregiudizio. Si ritiene che vi sono diverse modalità per sostenere la diversità. Uno di questi è, osservando il diritto all’informazione, quello di promuovere il diritto alla cultura e all’istruzione nella lingua madre, insieme a diverse forme di dialogo interculturale.

Relativamente alle minoranze linguistiche, l’accesso ai mezzi di comunicazione diventa, allora, funzionale alla realizzazione di una pluralità di obiettivi, fra i quali, la diffusione di informazioni nella lingua minoritaria; la diffusione di informazioni relative alla cultura e alle tradizioni dei gruppi minoritari a tutti; la promozione della partecipazione attiva e consapevole degli appartenenti alla minoranza linguistica alla realtà sociale in cui vivono.

Le ragioni della tutela delle minoranze linguistiche trovano riscontro nel fatto che gli uffici pubblici debbano essere organizzati in modo da poter comunicare con coloro che usano una lingua minoritaria (qualunque sia il numero di questi soggetti).

Per quanto riguarda la tutela linguistica nel diritto internazionale, il mantenimento e la trasmissione della lingua sono previsti, in forma indiretta, dalla Convenzione UNESCO (art. 1), dalla Carta delle Nazioni Unite (art. 1 par. 3), dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 27),  dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 2 par. 1), e a livello europeo dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 14), riflettendo soprattutto l’obbligo di non discriminazione, e tralasciando la valorizzazione dell’identità linguistica.

Porgendo lo sguardo all’Europa, un utile strumento alle minoranze linguistiche ci viene offerto dall’art. 3, comma 3, TUE, il quale afferma che l’Unione  “rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”. Le Convenzioni che, invece, trattano la questione sui diritti linguistici in modo più specifico sono quelle approvate dal Consiglio d’Europa, e sono la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (1992) e alcune disposizioni della Convenzione-quadro sulla tutela delle minoranze nazionali (1995).

La Carta europea, dispone che “la protezione delle lingue regionali o minoritarie storiche dell’Europa, alcune delle quali rischiano di scomparire col passare del tempo, contribuisce a conservare e a sviluppare le tradizioni e la ricchezza culturali dell’Europa”.  Da detto punto di vista,  rileva l’Avvocato Pitorri, che la ricerca di carattere giuridico tenda a qualificare la protezione delle minoranze come strumento per proteggere le identità culturali.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri

Richiesta di archiviazione per le ONG

Parlando delle ONG, l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri spiega che si tratta di organizzazioni senza fini di lucro, che operano in maniera indipendente dai vari Stati e dalle organizzazioni governative internazionali. Esistono in tutto il mondo e portano avanti, con il loro operato, campagne dall’ineguagliabile valore umanitario.

Parlando delle ONG, l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri spiega che si tratta di organizzazioni senza fini di lucro, che operano in maniera indipendente dai vari Stati e dalle organizzazioni governative internazionali. Esistono in tutto il mondo e portano avanti, con il loro operato, campagne dall’ineguagliabile valore umanitario. Se ne é sentito parlare sovente, ultimamente, in tema di migranti. Le ONG denunciano i sempre più frequenti casi di respingimento di migranti in Libia ad opera di navi commerciali, che vengono coinvolte dalla Guardia costiera di Tripoli nel soccorso delle imbarcazioni che partono e che riportano indietro i migranti (nonostante la Libia non sia considerata un porto sicuro). Va certamente evidenziato che le navi delle ONG nel Mar Mediterraneo, tra il 2014 e il 2017, hanno tratto in salvo ben 114.910 persone, a fronte delle 611.414 soccorse, pari al 18,8% del totale. Ciò, tuttavia, rileva l’Avvocato Pitorri, non ha impedito di avviare quella che è stata definita una vera e propria campagna di screditamento e criminalizzazione verso le ONG, equiparate addirittura a complici degli scafisti. Questo ha contribuito, purtroppo, a rendere progressivamente impossibile la prosecuzione delle loro missioni.

Spesso, però, le indagini sulle navi ONG hanno un esito positivo. Fa presente l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri (impegnato quotidianamente nell’attività forense a favore anche dei migranti) che si è, infatti, conclusa da poco l’ennesima inchiesta contro le ONG, con una richiesta di archiviazione. La notizia è di grande rilievo, posto che a sottoscrivere il documento è  il procuratore  di Catania, che, in più di un’occasione, ha  dichiarato di ritenere illegittimo l’operato delle navi umanitarie.

Il comandante ed il capomissione della nave della ONG spagnola Proactiva Open Arms, accusati di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina (per aver portato a Pozzallo 218 migranti soccorsi al largo della Libia il 17 marzo dell’anno scorso), che svolgono azioni umanitarie continue, si ritengono soddisfatti da tale decisione.

Il sequestro della nave, a seguito dell’approdo, è stato disposto iscrivendo nel registro degli indagati i responsabili del natante per il più grave reato di associazione per delinquere. E’ stato contestato, invero, ad Open Arms il “rifiuto di consegnare i profughi salvati a una motovedetta libica”, posto che, “nonostante la vicinanza con l’isola di Malta, la nave ha proseguito la navigazione verso le coste italiane, come era sua prima intenzione”.

La  notizia della richiesta di archiviazione è stata resa nota dai legali della ONG, i quali hanno avuto risposta dalla Procura distrettuale di Catania, successivamente alla loro richiesta di conoscere lo “stato del procedimento”.

Una storia conclusasi  con un lieto fine.

Parlando delle ONG, l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri spiega che si tratta di organizzazioni senza fini di lucro, che operano in maniera indipendente dai vari Stati e dalle organizzazioni governative internazionali. Esistono in tutto il mondo e portano avanti, con il loro operato, campagne dall’ineguagliabile valore umanitario.

Se ne è sentito parlare sovente, ultimamente, in tema di migranti. Le ONG denunciano i sempre più frequenti casi di respingimento di migranti in Libia ad opera di navi commerciali, che vengono coinvolte dalla Guardia costiera di Tripoli nel soccorso delle imbarcazioni che partono e che riportano indietro i migranti (nonostante la Libia non sia considerata un porto sicuro). Va certamente evidenziato che le navi delle ONG nel Mar Mediterraneo, tra il 2014 e il 2017, hanno tratto in salvo ben 114.910 persone, a fronte delle 611.414 soccorse, pari al 18,8% del totale. Ciò, tuttavia, rileva l’Avvocato Pitorri, non ha impedito di avviare quella che è stata definita una vera e propria campagna di screditamento e criminalizzazione verso le ONG, equiparate addirittura a complici degli scafisti. Questo ha contribuito, purtroppo, a rendere progressivamente impossibile la prosecuzione delle loro missioni.

Spesso, però, le indagini sulle navi ONG hanno un esito positivo. Fa presente l’Avvocato Iacopo Maria Pitorri (impegnato quotidianamente nell’attività forense a favore anche dei migranti) che si è, infatti, conclusa da poco l’ennesima inchiesta contro le ONG, con una richiesta di archiviazione. La notizia è di grande rilievo, posto che a sottoscrivere il documento è il procuratore di Catania, che, in più di un’occasione, ha dichiarato di ritenere illegittimo l’operato delle navi umanitarie.

Il comandante ed il capomissione della nave della ONG spagnola Proactiva Open Arms, accusati di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina (per aver portato a Pozzallo 218 migranti soccorsi al largo della Libia il 17 marzo dell’anno scorso), che svolgono azioni umanitarie continue, si ritengono soddisfatti da tale decisione.

Il sequestro della nave, a seguito dell’approdo, è stato disposto iscrivendo nel registro degli indagati i responsabili del natante per il più grave reato di associazione per delinquere. È stato contestato, invero, ad Open Arms il “rifiuto di consegnare i profughi salvati a una motovedetta libica”, posto che, “nonostante la vicinanza con l’isola di Malta, la nave ha proseguito la navigazione verso le coste italiane, come era sua prima intenzione”.

La notizia della richiesta di archiviazione è stata resa nota dai legali della ONG, i quali hanno avuto risposta dalla Procura distrettuale di Catania, successivamente alla loro richiesta di conoscere lo “stato del procedimento”.

Una storia conclusasi con un lieto fine.

Avvocato Iacopo Maria Pitorri